domenica 20 novembre 2011

Baccini canta Tenco: la vita, non la morte

Francesco Baccini è genovese e assomiglia a Tenco. Quando canta le canzoni al piano, soprattutto quelle lente, accenna a una smorfia involontaria che viene direttamente da casa Tenco.
Era circa un anno che dovevo vedere lo spettacolo Baccini canta Tenco: «Porto a spasso Luigi nei teatri…» e l’occasione è arrivata all’ottimo Festival delle letterature dell’Adriatico, a Pescara, in un teatro Massimo gremito.

C’è una cosa di cui ci si accorge immediatamente: Baccini canta le canzoni di Tenco come se stesse nel suo salotto di casa, salotto che non comprende solo il palco, ma anche la platea; questo accade perché il suo approccio è rispettoso ma confidenziale, come se Tenco stesso fosse seduto in un angolo, incuriosito.

Lo spettacolo è scritto dallo stesso Baccini e da Marzio Angiolani, arrangiato e suonato splendidamente alla chitarra classica da Armando Corsi, con scenografie di Marco Nereo Rotelli, con Filippo Pedol al contrabbasso, Luca Falomi alle chitarre, Luca Volonté sassofoni e percussioni e Marco Fadda alla batteria. Alla direzione musicale Raffaele Abbate e alle luci sua maestà Pepi Morgia.

Si parte con Vedrai vedrai e Quando, che sono brani che assecondano le attese di chi conosce Tenco superficialmente, tramite la televisione o ricordi permessi da quel dannato Sessantasette. Questo spettacolo, però, ha come primo intento quello di far capire che Tenco fu prima di tutto uno che smosse le acque, un humus creativo e una manna, passaggio germinale e crisalide per la canzone d’autore italiana. Così, già dalla terza canzone, Baccini mette in atto il suo piano: si cala nel poetico realismo di Tenco, fatto di un dettato quasi prosaico, funzionale a quello che a Tenco interessava in quel periodo: l’immediatezza, con le parole che arrivano dritte come macigni, sia per le canzoni d’amore che per quelle di protesta.

Qui c’è il passo in più, perché l’aspetto connotativo, cioè la verve e l’emozione aggiunta, è trasmessa dalla musica: e in questo spettacolo si suona davvero.
Riattualizzare Tenco, questo è il punto, perché le sue canzoni sono degli scrigni di canzone d’autore più pura. I brani prestano alla Storia testo-armonia-melodia e un riferimento interpretativo, da arrangiare nel tempo e consegnare all’immortalità. E non voglio essere aulico, è che con la canzone d’autore funziona così.
Ecco che dunque si esce fuori dalla logica del beat e si passeggia tra i generi in una giornata di sole. Tre esempi su tutti: La balata della moda in cui Antonio, il protagonista, viene spolverato e riprende vita per rivivere come rivivrebbe oggi uno scritto corsaro di Pasolini; Ognuno è libero, genialmente tradotta in uno ska che scecchera i suoi quarantacinque anni; E se ci diranno – forse il momento più alto dell’intero concerto – regalata a un arrangiamento rock che Tenco non ha fatto in tempo ad usare.

La musica, inoltre, dice la sua sia quando Baccini esegue Mi sono innamorato di te in solitaria, sia quando duetta al piano o alla sola voce con la chitarra di Armando Corsi, sia quando parte la jam dell’intera band, col piacere e la voglia di suonare, perché Tenco nasce dal jazz, dal sax, da una precisa struttura musicale delle canzoni e non da due note in croce che accompagnano i testi.
Così, facendo la spola tra brani come Se stasera sono qui e Cara maestra, Baccini fa conoscere il vero Tenco, inaspettato dal pubblico. In platea si tocca con mano lo stupore dell’attualità dei pezzi di denuncia e il fatto che Tenco fosse un vero agitatore, non un ragazzino scontroso e sconfortato, semmai, appunto, agitato e nitidamente agitante.

Definitivamente: Baccini canta la vita di Tenco, non la morte, perché Tenco è passato alla storia maledettamente per la sua morte, non per le sue canzoni. Ed è una sciagura. Lo spettacolo, infatti, si ferma a qualche settimana prima del Festival del 1967, tant’è che viene eseguita la versione originale di Ciao amore ciao, poi cambiata per esigenze discografiche. Il brano si intitola Li vidi tornare, una canzone di vita, antimilitarista, che parte dalle guerre di ogni tempo, cita chiaramente Bella ciao nel ritornello e prefigura, manco a dirlo, la stagione dei cantautori (per esempio è impressionante la vicinanza strutturale con I commedianti di Vecchioni).

Il congedo è una chicca: Preghiera in gennaio, la canzone che Fabrizio De André dedicò proprio a Tenco, con Baccini alla voce e sola chitarra di Armando Corsi. Anche qui, una canzone macigno per la storia della canzone d’autore (si veda, una per tutte, la recente La piccola amica, di Marco Ongaro), il modo migliore per esaltare ciò che Tenco ci ha lasciato, la sua vitalità artistica e il suo legittimo ingresso nel Paradiso della storia culturale italiana.

lunedì 8 agosto 2011

Botteghe d'Autore e le belle canzoni degli emergenti

Sono di ritorno da Albanella, in provincia di Salerno, dove sono stato in giuria al Premio Botteghe d'Autore.
Senza dubbio è una delle manifestazioni più trasparenti e, cosa indispensabile, organizzata da gente col palato fine per ciò che riguarda le selezioni dei finalisti.

Per tutti cito Ivan Rufo, che è il direttore artistico ed è nato il 7 novembre del 1979, come me (informazione del tutto inutile, ma questo è un blog, fra l'altro il mio).
Il concorso è stato vinto, strameritatamente, da Emanuele Bocci; secondi i Diversamente Rossi; miglior testo Rebi Rivale. Da segnalare anche Marialuisa De Prisco e Alex Bartolo. Questa è pura cronaca, ma io voglio parlare d’altro.

Voglio parlare del fatto, condiviso da più d’un giurato, che il livello artistico dei dieci finalisti era davvero molto alto. Ok, Ivan fa il proprio mestiere in modo certosino e ha alle spalle una cultura importante della migliore canzone d’autore italiana; però è da un po’ di anni che giro per le varie manifestazioni e spesso la qualità lascia a desiderare, tranne per quei due o tre nomi che poi si dividono i premi. No, il livello ad Albanella era alto, sia nei testi che nell’intenzione linguistica (intendo linguaggio-canzone) della musica mai gratuita, più o meno bella.
È precisamente di questo che voglio parlare qui: del livello degli ‘emergenti’ e di questa bruttissima e ipocrita parola che ha fatto comodo fino a oggi a molti organizzatori di rassegne e concorsi.
Partiamo proprio dalle parole di un emergente.

Qualche settimana fa a rinfocolare (non è che le metafore debbano usarle solo gli artisti) questi miei ragionamenti è stato un passo di una intervista di Paolo Fiorucci, questa (la scrittura su internet è proprio un altro codice), e in particolare questo passo:

Ce la cantiamo e ce la suoniamo. Non c’è alcuna selezione, basta pagare per autoprodursi un disco, se sei bravo appena oltre la media con un po’ di conoscenze avrai un numero di recensioni sufficienti a farti esistere come emergente. Comincia così il Limbo dell’emergenza, che dura almeno tre vite e mezzo. Non conosco nessun cantautore emergente che sia uscito da questa condizione e che mi abbia detto: “Dopo anni di gavetta riesco ad arrivare a fine mese con le mie canzoni”. La canzone d’autore nel 2011 è un hobby costoso.

Forse il passo mi ha colpito e mi è piaciuto perché è tutto limpidamente vero e reale, anche se non sempre il vero colpisce, quantunque limpido; quasi mai, poi, mi piace la realtà in quanto tale. No, c’è dell’altro. C’è un movimento lucido delle sinapsi vissuto sulla propria pelle, quella di Fiorucci e – del tutto incidentalmente – quella mia, da frequentatore di giurie di concorsi: «Non conosco nessun cantautore emergente che sia uscito da questa condizione». Bene, nemmeno io.
Per fare esempi bisogna prendere il meglio e, allora, parliamo di Piji, il più premiato cantautore italiano, uno che i concorsi li ha vinti tutti. Piji è il migliore di tutti gli emergenti fino a che non si capisce che Piji non è un emergente, perché la parola è brutta e non ha senso. Piji è un cantautore, uno fra i migliori, perché se si continua con questa storia dell’emergente uno rimane tale fino a sessant’anni, visto che il nostro Paese è malato di forma mentis iconico-televisiva, che crea stagnazione mentale e la inchioda alle parole: le parole, le etichette, si fissano addosso alle persone, a un gruppo, a una comunità e non si schiodano, diventano intrinseche al senso di quelle persone, e allora Piji è un emergente, De André un poeta (possibilmente santo), Gaber lo segue a ruota, Pasolini un profeta, i cantautori annoiano, Baglioni è melenso, Morgan è un genio ribelle. Hai voglia poi a essere altro.

In una situazione culturale decente Piji, a trentadue anni, avrebbe già pubblicato almeno un paio di dischi e riempirebbe gli anfiteatri come fa Capossela. Piji non è meno bravo di Capossela, quindi – muovendosi per sillogismi taciti – vincere i concorsi non serve a granché.
Magari farli serve, ma non più che come proposta artistica di fronte a degli addetti ai lavori che si spera siano competenti.

Oggi credo che i concorsi siano solo un ottimo modo per conoscersi tra gli addetti ai lavori, a iniziare dagli artisti. Questa è l’ultima riflessione che mi è venuta dopo Botteghe, e torniamo all’inizio: fino a pochi anni fa il livello era decisamente più basso. Azzardo dicendo che il ruolo fondamentale per questo miglioramento artistico, paradossalmente, è tanto dei concorsi quanto di internet.
Andiamo con ordine: per i concorsi si sarà intuito il perché leggendo fino a qui e spero si capirà alla fine. Per internet il discorso è ancora più preciso; è un discorso di modelli. Internet ha fatto sì che si creassero due strade ben nette: quella del mainstream e quella no, che mina alle fondamenta persino del concetto stesso di popular music. Si pensi al fatto che la canzone moderna è una forma espressiva della popular music, che storicamente – e geneticamente – risente del rapporto con i media, per via dell’indispensabile diffusione tramite questi ultimi. Con questi presupposti ci sono diverse strade per fare canzoni, e un ottimo elemento di differenziazione è dato dal livello di influenza che l’esigenza di diffusione mediatica ha nella forma: un estremo è il Pop; un altro, in antitesi, la Canzone d’Autore.

Quello che è successo negli ultimi dieci anni tramite internet è che ci si è sganciati dai media tradizionali, che quindi non influiscono sulla forma. Personalmente credo di aver già spiegato il motivo qui ma, al di là delle cause, gli effetti sono evidenti: chi fa musica non ha più modelli da mainstream, che inevitabilmente vedevano nell’esigenza di diffusione mediatica un elemento determinante per la forma artistica; la portata di questa rivoluzione è epocale perché persino nomi storici della canzone d’autore erano spesso determinati da quest’esigenza verso i media, quindi proprio nessuno aveva modelli esenti: ora il modello è il live di un altro concorrente conosciuto in quel concorso, il suo modo di scrivere i testi, le sonorità di un gruppo indipendente mai apparso in TV – medium che è il Male per la canzone –, il modo di creare le immagini di quel cantautore mai passato su Radio Deejay.

A questo è dovuto, credo, l’innalzamento medio della qualità artistica. Ma si può fare di meglio: più che innalzamento della qualità artistica si dovrebbe parlare di consapevolezza linguistica, di consolidamento di un linguaggio artistico altro, che può bellamente fregarsene di cosa possa o non possa funzionare: pura esigenza espressiva.
Poi il linguaggio lo si può usare bene o male, si possono scrivere belle o brutte canzoni, ma parlare la stessa lingua aiuta anche ad avere parametri comuni e a valorizzare i pochi – per fortuna – che con quel modo di esprimersi descrivono ciò che non leggiamo con i nostri occhi.




Condividi l'articolo

venerdì 5 agosto 2011

Marco Ongaro, Max Manfredi e i Cantautori Novissimi.

Passo tratto dal libro Cantautori novissimi. Canzone d'autore per il Terzo Millennio, Bastogi, Foggia, 2008, pp. 51-56:

La neo-avanguardia della canzone d’autore è tale  perché, tramite internet e per via del fatto che i rapporti con le majors sono ininfluenti o assenti, i cantautori per la prima volta nella storia possono creare in totale indipendenza artistica; si è perso molto in senso promozionale ma si è guadagnato altrettanto in senso artistico – e, va da sé, quello a me interessa in questo frangente –, e nemmeno l’avanguardia della canzone partita dagli anni Sessanta poteva permetterselo in maniera così totalizzante.
L’opera che descrive artisticamente il 'giro di boa' è L’intagliatore di santi del 2001, di Max Manfredi; quella che rappresenta, per motivi artistici e umani, l’inizio di questa nuova consapevolezza si può invece individuare nell’album Dio è altrove del 2002, di Marco Ongaro. 

Dell’album di Manfredi è importante citare due canzoni che si intitolano rispettivamente Freddo e L’intagliatore di santi, brano che dà nome all’intero disco; sono la prima e l’ultima dell’opera: nella prima l’autore descrive l’avvertimento delle sensazioni di chi è effettivamente 'sopravvissuto', come leggeremo tra breve nelle parole di Ongaro, a un periodo di decadenza e naftalina delle possibilità artistiche. La canzone si apre inequivocabilmente con questo verso da day after:

È freddo, le dita son fredde e sveglian le corde di questa chitarra. [1]

continuando poi nella descrizione di chi prefigurava un trattamento dovuto, una prassi riservata ad artisti predecessori che non sarebbe mancato in un clima non investito dall’ellissi discografica:

Supponevo che sarei caduto ma in un altro modo, già, e per vanità:
mi vedevo cadere con lo stile e il mestiere di un cavallo a Cinecittà,
mi vedevo cadere con la diaria e il mestiere di un cavallo a Cinecittà.

Nella canzone L’intagliatore di santi, invece, si descrive una nuova era, dopo la fine e la palingenesi; notare come in questo modo l’intero corpo dell’album si ponga come una specie di “attraversamento del punto di svolta”: 

È da poco che sono in città
e mi sono ambientato da poco,
tra parchi, rovine e caffè
e le mura che danno sul vuoto.  [2]

 Il brano prosegue con una serie di immagini da sabato del villaggio – con la decisiva consapevolezza acquisita, però, di trovarsi in un lunedì –, con una tranquillità creatrice, morbida e amena, non a caso in un ruolo d’artigiano.

Esperto come sempre nell’avvertimento e nello smascheramento dei paradossi di ogni pseudo-apocalisse, Manfredi rivendicava nella prima canzone dell’album – anche qui, non a caso, in un album pubblicato dopo un lungo periodo di inattività discografica personale durata sette anni – una fiera appartenenza artistica e prefigurava nell’ultima ciò che si sarebbe fatto emblema consapevole in Dio è altrove di Ongaro.
Leggiamo dunque, dalla canzone eponima della stessa Dio è altrove, pochi ma emblematici versi:

Ciò che si crede davvero importante,
veduto all'ombra di un sole minore,
può risultare un po' deprimente
se lo si guarda da molte ore.

E se ti credi del tutto innocente
- una pedina e chissà chi ti muove -
non c'è nessuno davvero innocente,
cammina, alzati ché Dio è altrove! [3]


Ongaro ha vissuto il periodo ombratile per troppo tempo, ha smesso nel 1995 dopo aver pubblicato un album dal titolo significativo come Certi sogni non si avverano: appena gli hanno dato una nuova possibilità, a condizioni sue, si è alzato ed ha indagato quell’altrove. Come lui la canzone d’autore. 
Per introdurre questo momento che, comprensibilmente, rappresenta quello decisivo del mio discorso e dell’intero mio saggio, mi servo delle parole dello stesso Ongaro, rilasciatemi in una recente intervista. Mi scuso per la lunghezza del brano in citazione, ma il lettore comprenderà l’importanza del peso di ogni singola parola:

D – Torniamo al periodo di cinque anni in cui sei stato fermo. Puoi parlarmi della gestazione di Dio è altrove? Quali sono stati i motivi che ti hanno convinto a scrivere, pubblicare e a cantare ancora canzoni in prima persona dopo lo stop? Per me quell'album rappresenta l'inizio della neo-avanguardia e l'emblema dei Cantautori Novissimi.
R – Realizzando Lasciatemi vivere per Grazia De Marchi nel 2000 mi sono accorto che non solo esisteva la possibilità di riprendere in mano penna e strumento musicale per fare arte 'su commissione', raccontando l'altrui vita e gli altrui sentimenti e trovandovi nuova linfa espressiva, ma che c'era pure la possibilità di un collegamento totalmente autonomo con la piccola industria, nella persona di Renato Venturiero e della sua Rossodisera, all'epoca distribuita da EMI. Venturiero aveva stampato il cd della De Marchi con piglio collezionistico, dopo che l'avevo interamente inciso ed arrangiato. Praticamente aveva accettato il lavoro a scatola chiusa e questa era la prima volta che mi capitava, se pensiamo che Archivio Postumia era ancora lontano dall'essere pubblicato proprio perché inciso e arrangiato in perfetta autonomia nel 1990.
Era evidentemente cambiato qualcosa. Non capivo cosa avesse provocato il cambiamento, ma ne avvertivo pienamente l'effetto.
Ne ho avuto conferma quando ho proposto sempre a Venturiero, l'anno successivo, di pubblicare l'album Shakespeariana che avevo scritto e arrangiato per Giuliana Bergamaschi. Quando gli ho dato il master mi ha detto, con una smorfia ironica da cavaliere senza macchia: "Nessuna radio trasmetterà mai neanche un secondo di queste canzoni". Lo diceva come sfogo, mentre accettava senza condizioni di pubblicarlo come aveva fatto col precedente.
Evidentemente il suo contratto di distribuzione con la Emi lo poneva in una posizione estremamente autonoma, ovvero gli avrebbero distribuito (o finto di distribuire) qualunque cosa lui avesse deciso ed era questa autonomia a riverberarsi nella mia nuova libertà di creare sapendo che sarei comunque stato pubblicato.
Shakespeariana è stato completato nel settembre 2001 ed è uscito nel novembre di quell'anno. Nel luglio dello stesso anno il chitarrista Roby Ceruti, sulla spinta di un altro produttore particolarmente vivace in quel momento, Marco Rossi di Azzurramusic, mi chiese di diventare la voce di un nuovo gruppo rock e di scrivere le canzoni necessarie a farne un cd. Il momento era davvero magico: scrivevo quello che volevo sapendo che sarebbe stato pubblicato come piaceva a me e adesso mi si chiedeva di tornare a cantare su un genere che già avevo sperimentato in passato e il tutto in assoluta libertà.
Che i dischi vendessero o meno non era importante quanto superare la condizione di "cantautore postumo in vita" dando alle stampe, quindi alla memoria culturale del Paese, l'espressione della mia arte così come la sentivo e nel momento in cui la sentivo! L'oggetto CD era destinato ad essere venduto ai concerti, non contava molto. Ma contava la produzione, che un produttore pagasse sala d'incisione e musicisti per realizzare un master offrendo forma compiuta all'idea creativa. Ero nelle condizioni dell'artista che lavora sapendo di avere comunque dei collezionisti.
Nello sfacelo totale della discografia, si aprivano spiragli individuali molto stimolanti, spiragli che in passato erano appannaggio solamente di chi aveva avuto un successo tale da poter dettar legge all'industria. Quindi, appena finito di scrivere l'ultima canzone di Shakespeariana, con l'appuntamento a settembre per inciderla e procedere ai missaggi dell'intero master, sono partito alla volta della Calabria con l'idea di scrivere il cd del mio "ritorno in voce".
Ho fatto tappa a Lecce, a casa di un giovane cantautore che avevo conosciuto da poco, ancora inedito, di nome Alessio Lega, e lì sono stato raggiunto da Max Manfredi per una due giorni/due notti di canzoni ininterrotte nella veranda di casa Lega. Il fermento era nell'aria. Due esausti amici che negli anni Ottanta avevano mosso i primi decadenti passi nella canzone d'autore di fine secolo si ritrovavano insieme alla tavola di una nuova leva piena di entusiasmo. L'idea palpabile era che fossimo sopravvissuti e finalmente potessimo ricominciare.
Dopodiché andai in Calabria, comprai una chitarra e scrissi in un mese Dio è altrove. Era inevitabile che l'album grondasse entusiasmo, smitizzazione, disincanto ma anche segni pulsanti del fermento che stavamo vivendo. La canzone destinata a chiuderlo, Il conte Max di Genova, dedicata all'amico Manfredi, era espressione di quella nuova libertà. Dopo aver parlato di miti e memoria tradita, dopo aver assodato che Dio era altrove, che Shakespeare poteva risvegliarci, che Ligabue era un pittore e Merlino un mago senza poteri, dopo aver giurato di non giurare più di smettere di cantare, offrivo la mia visione di un mito sconosciuto a molti, un autore straordinario con cui avevo avuto la fortuna di condividere parte del mio tragitto artistico. Creavo un mito nel cantarlo, poiché da sempre i miti esistono perché vengono cantati. Chiedevo agli ascoltatori, fossero pure tre, di riconoscere l'esistenza di un mito non consacrato dalle "majors". Contribuivo alla memoria dopo averne lamentato il tradimento.
Il cd è uscito nell'ottobre dell'anno successivo ed ha rappresentato il mio ritorno sulle scene, un ritorno motivato da una sola condizione: la libertà. Qualora questa libertà venisse a mancare di nuovo, di nuovo smetterei di cantare.[4]

La stessa libertà che, da buon artigiano, permette di poter dire a Manfredi in L’intagliatore di santi: ‹‹intanto che poso il lavoro/ e bevo una birra alla spina››, descrivendo l’attività più quotidiana di questo mondo, in quel contesto, però, precisamente poetica. Attenzione: le mie non sono solo congetture filologiche di un critico; tutto è inequivocabile, tutto rappresenta un movimento cosciente che fa di Dio è altrove la prima opera sicuramente consapevole del nuovo corso e adeguato manifesto d’apertura:

Il conte Max di Genova
vive di recente 
molto attivamente
la sua libertà che incanta.[5]

Possiamo semplificare in questo modo questo snodo: il disegno d’apocalisse e la prefigurazione delle condizioni di ripartenza con l’album L’intagliatore di santi di Max Manfredi e l’effettivo movimento, la ri-partenza in Dio è altrove di Marco Ongaro. Di certo: L’intagliatore di santi e Dio è altrove sono due opere mostruosamente riuscite. 
‹‹Nei cardini non ci sono tarli››[6], per dirla con Enzensberger che parla proprio di avanguardia.



[1] M. Manfredi, Freddo (ma non conta niente), in L’intagliatore di santi, Storie di note, 2001.
[2] M. Manfredi, L’intagliatore di santi, in L’intagliatore di santi, Storie di note, 2001.
[3] M. Ongaro, Dio è altrove, da Dio è altrove, AzzurraMusic/D'Autore, 2002.
[5] M. Ongaro, Il conte Max di Genova, da Dio è altrove, AzzurraMusic/D'Autore, 2002. La descrizione sarà precisa, puntuale, metaforica e perfettamente poetica in Max Manfredi, nella canzone Il molo dei greci, pubblicata in Live in blu, per Storie di note, 2004: ‹‹Questa sera qui a Molo dei greci si sconta la pena/ d’aver troppo creduto al vangelo pagano del fado/ fatto a pugni con troppi fantasmi all’Osteria del Rebado/ perso tempo incollati alle onde delle radio a galena./ Ed il Re degli abissi – se trovo chi me l’ha presentato… –/ m’ha ingaggiato a cantar nelle squadre dei suoi trallallero/ poi m’ha fatto firmare un impegno che già ero ubriaco››. Viene descritto il dorato mondo della discografia ufficiale, che cozzava con l’autenticità delle future esibizioni dal vivo, quando ancora si elemosinava controvoglia un passaggio in radio – fra l’altro ‹‹a galena››, quindi sorpassate, forse da internet – che non ci sarebbe mai stato, discografia ufficiale a cui era anche possibile arrivare ma che avrebbe distribuito male il disco e mai lo avrebbe pubblicizzato.
[6] M. Enzensberger, Letteratura e/o rivoluzione, Feltrinelli, Milano, 1970, p.23.

Condividi l'articolo

sabato 25 giugno 2011

La casa dei doganieri

Tu non ricordi la casa dei doganieri
sul rialzo a strapiombo sulla scogliera:
desolata t’attende dalla sera
in cui v’entrò lo sciame dei tuoi pensieri
e vi sostò irrequieto.

Libeccio sferza da anni le vecchie mura
e il suono del tuo riso non è più lieto:
la bussola va impazzita all’avventura.
e il calcolo dei dadi più non torna
Tu non ricordi; altro tempo frastorna
la tua memoria; un filo s’addipana.

Ne tengo ancora un capo; ma s’allontana
la casa e in cima al tetto la banderuola
affumicata gira senza pietà.
Ne tengo un capo; ma tu resti sola
né qui respiri nell’oscurità.

Oh l’orizzonte in fuga, dove s’accende
rara la luce della petroliera!
Il varco è qui? (Ripullula il frangente
ancora sulla balza che scoscende…).
Tu non ricordi la casa di questa
mia sera. Ed io non so chi va e chi resta.



(E. Montale, La casa dei doganieri, in Le occasioni, IV)

Condividi l'articolo

sabato 28 maggio 2011

'Habemus Papam' è un film di parola


Non solo canzone d'autore. Habemus Papam di Nanni Moretti è un film di parola. Promette e mantiene. Perché? Soprattutto perché, presentandosi come un’enorme umanizzazione dell’istituzione ecclesiastica, si pone agli spettatori come propedeutico al logos, al discorso del nuovo Papa dal balcone e, quindi, al verbo.

«In principio era il verbo» (Gv, 1,1), ecco: in questo film al verbo ci si deve arrivare per gradi, dopo che per l’intera pellicola abbiamo visto cardinali insicuri, claudicanti, permalosi e agonistici; in una parola ‘umani’. Il discorso finale dal balcone si può dire che venga fuori come dalla roccia informe dell’afasia.

Probabilmente le scene che più colpiscono – uniche nel proprio genere – sono quelle in cui il nuovo Papa in borghese si aggira per una Roma fremente ed eccitata: un signore anziano e disarmato, in cui il regista recupera le istanze del cinema della realtà per rappresentare l’essenzialità dell’Uomo. 
Il Papa è rappresentato come l’ultimo disgraziato di questa Terra che ha nella parola l’unico strumento incorrotto per interagire col prossimo. Si prendano a esempio il dialogo con la psicanalista Margherita Buy che ignora la sua occupazione o le battute di Cechov tanto amate da ragazzo: proprio Freud diceva che è la parola l’unica arma per aiutarci nel far riemergere il rimosso, il verbo si fa carne in religione, si fa vita, immagini, suoni e stacchi di montaggio che indagano le viscere dell’insicurezza nel film di Moretti.

Così, dopo il travaglio palingenetico, dopo il depauperamento e mondata ogni fuorviante ambizione, si è pronti per il discorso finale di un monumentale Michel Piccoli, vero e proprio esempio in cui la parola si accorda e brilla tra gli altri elementi segnici del film. Un miliardo di persone ad ascoltare un solo uomo che richiama e rivendica la propria umiltà, rifuggendo sofismi inutili: «La Chiesa ha bisogno di grandi cambiamenti […] bisogna che abbia per tutti amore e capacità di comprensione» o, ancora: «Ho capito che non posso condurre, ma sono uno che deve essere condotto». Sono parole semplici ma purtroppo non scontate, in cui molta gente si rispecchia, quindi umane, di assoluta empatia e solidarietà.

Condividi l'articolo

mercoledì 13 aprile 2011

Pino Marino, la vera storia di 'Non ho lavoro'.

Pino Marino. Foto Simone Cecchetti.
In riferimento a ciò che scrissi su questo blog per le canzoni di Cristiano Angelini, di seguito parlerò del brano Non ho lavoro di Pino Marino, contenuto nell’album Acqua luce e gas (Fandango, 2005).
Ricapitoliamo: la canzone d’autore è un linguaggio, non una canzone con parole ‘abbellite’ – questo è il punto di partenza –; è un linguaggio tramite il quale dire delle cose, raccontarle, in maniera diversa da come fa il mondo. Proprio in Non ho lavoro abbiamo un esempio lampante del fatto di usare immagini metaforiche non per una vuota apparenza, ma seguendo una modalità coerente che trovi il suo giusto significato proprio nel racconto e nella struttura della canzone.

Non ho lavoro è un grido che si serve sottilmente di una ironia amara nel ritornello «Non ho lavoro quindi non ho paura di perdere il lavoro!». Il protagonista non ha lavoro, ok, e porta a spasso il cane dell’inquilino sotto; nell’incedere del testo a questo punto si passa dalla vita precaria, che pure rappresentava il centro dell’esistenza del protagonista e del racconto, a una staffeta di situazioni vorticose che vedono al centro i soldi: una rincorsa schizofrenica e ripidissima che spinge sempre più in là la mente del protagonista, una frenesia che porta a immagini irreali.

«Ho una vita da condurre con due banconote azzurre
con sopra scritto 20, 20 e 20 fa 40
e a me che serve 100 ne mancano 60,
a te serve 300 e il fatto va a finire in banca,
a lui serve 3000 e già gli manca una pistola,
a chi serve 300.000 manca una carriola
di banconote gialle che il vento porta in aria
al posto delle foglie e il vento le raduna
le conta le riconta ma ne manca sempre una»

Ecco il primo esempio significativo: l’immagine del vento e delle foglie è una metafora giustificata dall’alienazione a cui porta quella continua rincorsa precaria dell’esistenza. A ben vedere, la sostituzione dei soldi alla vita – rappresentata dalle foglie –, cioè farli diventare motivo dell’esistenza al posto della vita stessa, è emblematica, perché per realizzarla ci si serve di un elemento naturale: è come se la vita nella sua forma più naturale diventasse altro, altro che non ci appartiene ma ci governa, qualcosa di alieno e innaturale. Ecco a cosa mi riferivo, per esempio, nell’articolo sull’Angelini quando dicevo che «bisogna riscrivere il mondo avendo il coraggio di dare riferimenti precisi, plastici, narrativi». Cioè, non è che pensassi a questa canzone scrivendolo, sia chiaro, solo che questo brano calza a pennello.
Ma andiamo oltre.

Dopo il ritornello si riprende nelle strofe la descrizione di una giornata più o meno sconclusionata: è un vero e proprio racconto, con una trama, un intreccio, in cui il protagonista si addormenta e sogna. E cosa sogna? Inevitabilmente, scandita da un incedere regolare e deciso, sogna la sua ossessione, l’immagine schizofrenica dei soldi portati in aria dal vento: 

«Rientro col botto alle otto
rincaso col bassotto dell'inquilino sotto
per tutti e due già piove, prendo sonno per le nove
così mangio domani e sogno l'inventore
che ha prestato le sue mani per sostituir le foglie
con le banconote gialle da 50 sopra ai rami
chi ha prestato le sue mani per sostituir le foglie
con le banconote gialle da 50 sopra ai rami?
chi ha prestato le sue mani per convincere gli umani
ad inseguir le foglie gialle appese sopra ai rami?»

Quello che qui ci interessa comprendere è che Pino Marino usa l’immagine finale onirica, con le mani, i rami, le foglie non ‘per abbellire’ il testo, ma il tutto è precisamente giustificato dalla struttura della canzone, addirittura anticipato da una metafora precisamente plastica e motivato dal senso di assuefazione e spiazzamento creato dalla situazione precaria e disumana del protagonista.

La canzone è un racconto di una giornata che descrive l’assurdità di una umanità disumana, trasformata in un’orda impazzita di persone che vivono per il denaro, arrivandoci per gradi, donando narratività persino alla descrizione o, meglio, prima introducendo gli elementi (i soldi, il vento, le foglie) poi organizzandoli all’interno della storia e alla fine tirando le somme.
Il tutto senza far capire che in realtà la vera narratività non sta affatto nella descrizione della giornata («mi alzo [...] esco [...] rientro [...] prendo sonno») ma nell’aver prima dato all’ascoltatore gli elementi – connotati dalla musica e dal ritmo martellante, dal grido sguaiato del ritornello – e poi averli organizzati per la costruzione dello scenario macabro ed etimologicamente incredibile in cui il frutto della terra è il denaro e tutti gli corrono dietro. Qui sta la vera narratività del brano, sono questi il prima e il dopo che ci interessano per il senso della canzone, e fortunatamente riusciamo solo ad intuirlo.
Quasi quasi cancello tutto...

Condividi l'articolo

domenica 20 marzo 2011

Presentazioni di NUDI DI CANZONE in Campania

Nudi di canzone sbarca in Campania.


Il libro sui generi della canzone italiana, curato da Paolo Talanca e che comprende una preziosa prefazione di Franco Fabbri e diversi contributi di alcuni tra le migliori penne della nuova leva critica musicale, sarà presentato a Napoli, Aversa e Benevento, in tre appuntamenti dal 26 al 28 marzo 2011.



Di seguito dunque il programma completo delle tre giornate, con gli ospiti e gli interventi:






NAPOLI:
Sabato 26 Marzo 18.00 , Libreria Ubik via B. Croce 28.
Saranno presenti oltre all’autore:
Antonio Piccolo (attore e critico musicale) autore del saggio La canzone a teatro, contenuto nel libro.    
Carmine D’Aniello (cantautore) che eseguirà alcuni brani dal vivo.

AVERSA:
Domenica 27 Marzo 18.00, Auditorium ‘Bianca d’Aponte’ via Nobel 2.
Presentazione-Concerto con l’autore, lettura di passi del libro e musica dal vivo col gruppo La tela di juta.

BENEVENTO:
Lunedì 28 Marzo 18.30, Libreria ‘Luidig’ Palazzo Collenea Corso Garibaldi 95.
Saranno presenti oltre all’autore:
Donato Zoppo (critico musicale), autore del saggio La canzone progressiva, contenuto nel libro.
Antonio Piccolo (attore e critico musicale) autore del saggio La canzone a teatro, contenuto nel libro.   
Carmine D’Aniello (cantautore) che eseguirà alcuni brani dal vivo.
Modererà l’incontro Flavio Ignelzi, giornalista redattore del magazine Salad Days.


In ciascun appuntamento l’attore Giuseppe Cerrone leggerà alcuni passi del libro.



L'evento è presentato da  Teatro in fabula.


Condividi l'articolo

martedì 15 marzo 2011

Paolo Fiorucci - C2-36




La casetta sembrava di marzapane, ma non lo era. No, le case nella realtà non sono di marzapane e questa casa esisteva; però sembrava di marzapane. Era tutta colorata come un quartiere di un film di Tim Burton, di quelli con l’erba d’un daltonico verdearancio nelle foto virate ambra, abitati da donne col rossetto fucsia.
Sebastiano, Andrea e Paolo entrarono dalla porta principale e si sistemarono in soggiorno. Le pareti erano sottilissime, quasi quanto quelle degli uffici nei grattacieli dei film polizieschi e internamente la casa non aveva affatto la vividezza dell’esterno. Su un divano verde opaco c’erano un Regolo, coi mattoncini bianchi sulla stoffa fuori dalla scatola, e un glokenspiel, ed era il meno: per terra, in quella stanza e in tutta la casa, cianfrusaglie e foto di famiglia, un libro di avventure dentro a un acquario e un pianoforte giocattolo su una stufa. In bagno c’era il tavolo dei libri: Platone, una ‘Vita di San Francesco’, Andersen e un vocabolario di latino con dentro solo i nomi della prima declinazione; sempre sul tavolo, lontano dalla pila di libri, una ‘Storia d’Abruzzo’ sotto un poster del Gran Sasso.
Solo una stanza era in ordine in quella casa, la stanza del sax. La porta della stanza era in legno massello, scurissima e con un pomello color oro acceso; sulla porta un’iscrizione:

Per me si perde e si Resiste
Magnificamente

Dentro c’era un tappeto rosso che portava a una teca trasparente. La stanza era buia, le serrande tutte abbassate e alle finestre c’erano tende rosso scuro. Nella teca il sax sembrava una pepita d’oro.
Sebastiano era completamente a proprio agio in quel marasma, così prese la chitarra e cominciò a parlare della canzone da scrivere entro sera.
Questo è quello che ci è dato sapere, il resto sono solo le voci della discussione dei tre…

* 

Sebastiano: Dobbiamo scrivere una di quelle canzoni che ti fanno passare alla storia. Dunque, vediamo: non dovremmo fare qualcosa di difficile ascolto, però mi piace quell’attacco con l’accordo diverso dalla tonica de Il regno delle fate, ce l’avete presente?
Andrea: Non mi piace che copi, ma non possiamo fare qualcosa che sia solo nostro?!
Sebastiano: Io non copio! Certo che di musica non capisci un mazza…
Paolo: Bah… non è copiare, calmatevi un attimo. Prima di tutto dobbiamo capire di che si parla. È la storia di una creazione, un robot, il più umano fra i robot, persino più umano degli umani e, visto che sarà l’ultima traccia di un concept album sulle creature artificiali, è un punto d’arrivo. Ho pensato che dobbiamo riuscire a dire tutto con la chitarra e con la voce.
Sebastiano: Dici per quell’idea della canzone d’autore che esce dalla materia informe (o una cosa del genere)?
Paolo: Sì ma senti è una cosa semplicissima.
Sebastiano: Com’è che si chiamerà l’album?
Paolo: Sei personaggi in cerca di cuore, e non interrompermi mentre parlo! Sono sei canzoni, una per ogni personaggio. Si parte da un arrangiamento poppissimo per un soldatino di stagno che da una soffitta chiede al bimbo di quarant’anni prima se la guerra è finita oppure no. L’album prosegue con stili, ritmi e generi tutti diversi, tutti sul piacione, per arrivare a questa canzone, a questo robot, che è la creazione perfetta, in cui ci si spoglia degli arrangiamenti e degli ammennicoli e si canta chitarra e voce, si fa canzone d’autore (cioè mia).  Non è che la canzone d'autore venga fuori dalla materia informe, è semplicemente che si libera dai compromessi del Pop per poter arrivare alla gente. Ricordate quando scrivemmo Il regno di Pop? Quello è da prendere come manifesto programmatico. Tutto chiaro?
Andrea: No, tutto fortemente opinabile e ti sei perso per strada troppe cose, io poi alla fine del disco metterei una cover di Ongaro, Il nostro caro Frankie, che unisce la storia delle creature artificiali e della canzone d’autore. Però in generale ci si può lavorare, mi piace l’idea e tu a differenza di Sebastiano sai dare un nome alle cose. 
        Sebastiano: Più passa il tempo e meno ti sopporto. Ad ogni modo, se si parla di una creazione si parla di sesso, e la cosa comincia a piacermi: facciamo cominciare tutto con un orgasmo!
Andrea: No dai, troppo diretto! Diciamo che c’è bisogno di fuggire dalla consuetudine, dalla realtà, di creare una situazione al di fuori del tempo del mondo, come se il tempo non contasse più e lo spazio fosse altro.
Paolo: «Quando ormai non contava più il tempo». Inizieremo così.  
Sebastiano: Sentite qua questo giro: VIm-V-IV e poi per dare narratività sostituiamo il primo accordo minore con il relativo maggiore e l’ultimo accordo maggiore con il relativo minore. Eh?
Andrea: Oh oh oh calma! Non ci sto capendo un cazzo. La melodia mi piace ma cerca di farmici capire qualcosa!
Sebastiano: Non è colpa mia se sei ignorante!
Paolo: Credo di aver capito, comunque mi pare possa andare. Poi tra la prima e la seconda strofa io metterei un accordo che dia sospensione: «Il più umano fra tutti i robot», ecco, su robot.
Sebastiano: Un accordo di settima!
Paolo: Fa come ti pare…
Sebastiano: III7 et voilà!
Paolo: Sì, perfetto, ci sta da Dio! Fin qui è tutto molto ‘tondo’ in 4/4, ora movimentiamo un po’, mi serve un ritmo popolare, in 3.
Andrea: Secondo me questo è un personaggio strepitoso, che ha bisogno di tutta la tenerezza di ‘sto mondo. Lo immagino a metà tra la paura e la voglia di visitare il mondo, e soprattutto ansioso di crearsi una identità. Mi è capitato spesso, e cazzo se lo capisco: qui sembra sempre di dover essere pronti a qualcosa, bisogna sempre essere adeguati. Ma a cosa? A che? Io faccio fatica ad adeguarmi a me stesso, mi sembra già tanto. Ho visto eserciti di persone fingere una faccia sorridente, partecipare alla corsa all’oro della scalata sociale più cinica. Quelli sono gli automi, mentre a questo robot, se ho capito bene, basta avere cervello e cuore, poi vivere farà la differenza: soffrire e aver paura, piangere e gioire, sbagliare e ricordare appena o credere di ricordare; questo è. E, guarda un po’, pretende di essere accettato. Il fatto è che quando nasci hai bisogno di un’identità: una caffettiera ha un ruolo ben preciso nella Storia, se non la invitano a ‘Porta a Porta’ e Vespa non dichiara davanti a tutti «Lei non è una caffettiera, lei è un essere umano» tutti la crederanno sempre una caffettiera.
Sebastiano: Facciamolo sodomizzare dallo zio macellaio, che poi lo spacca in quattro e occulta il cadavere nella credenza (popolare).
Andrea: Ci servirebbe qualcosa che nell’immaginario rappresenti una realtà capovolta, un luogo cioè dove sia credibile il fatto che un ammasso di ferro, bulloni e cartone sia un essere umano.
Paolo: Il circo! «Realtà capovolta, mondo di uguali perché tutti strani» come dice Guccini. Diciamo che però bisogna far capire la differenza tra il ‘prima’ e il ‘dopo’.
Sebastiano: Cos’è che più ci rappresenta? L’identità su che si basa? Cos’è la prima cosa che ci appartiene, anche prima del nostro fegato o dei nostri polmoni, qualcosa che è nostro a prescindere da noi stessi, dalla nostra volontà?
Paolo: Il nome!
Sebastiano: Fantastico sì! Ma bisogna essere chiari. Il nome c’è perché serve a qualcosa, sono suoni e simboli associati a qualcosa che esiste. Per un robot non c’è bisogno di identità, quindi il nome viene fuori dall’accostamento di qualcosa che c’è già e che solo casualmente è stato messo insieme per lui; qualcosa di freddo, asettico, arido, inumano. Tipo un numero di serie, H7-25, hai presente quel film di Bud Spencer? D’altra parte, quando quest’essere acquista una identità, ci vuole un nome che lo identifichi immediatamente come ‘uomo’. Magari, visto che siamo in un circo, qualcosa tipo ‘Donna cannone’. È così che la gente capisce subito la differenza.
Paolo: ‘C2-36’ e ‘Uomo’… ‘Uomo’… ‘Uomo bullone’.
Andrea: Sentite, a me tutta ‘sta storia non convince. Ora che mi ci fate riflettere: ma credete davvero che una convenzione sociale basti per fare un essere umano? Una identità prescinde da una convenzione sociale. L’identità è semplicemente essere uguali a se stessi. Se ho capito bene in tutto il disco ciò che queste creature cercano è il fatto di essere accettate. Bene: sanno che falliranno e provano lo stesso. Hanno la magnifica forza dei personaggi di tutte le poesie. Resistono, e resistendo hanno già magnificamente vinto. Poi perderanno, ma è un particolare di poco conto. Questo C2-36 a differenza degli altri deve fare il passo in più, e il passo in più è la consapevolezza. Questo qui deve uscire da questo circo e dire: «Ok, grazie di tutto, ma cercavo altro, cercavo me stesso e io sono me stesso a prescindere da voialtri e dal nome». Dopo la catarsi, dopo la scena da circo, ci vuole perciò un’ultima strofa, o ritornello, o quel cazzo che vi pare, in cui si deve essere chiari, limpidi, consapevoli.
Sebastiano: Ci vuole una bella morte, o almeno il fatto di dare l’idea di qualcosa che sfuma, fosse anche tutta la storia, fosse anche far credere che tutto sia stato un sogno dell’inventore, del fattore, di Dio.
Paolo: Prima bisogna far morire il circo però, e visto che parli di qualcosa che sfuma, niente è meglio di un manifesto che stinge. Avete presente quel capolavoro di Being for the Benefit of Mr. Kite! dei Beatles? Una canzone scritta ‘copiando’ un manifesto da circo. Il manifesto è il circo. E avete presente che i manifesti da circo stinti rimangono sui muri per mesi a volte? Non c’è niente forse che rappresenti l’idea di passato più di un manifesto giallo acceso da circo che stinge, coi nomi che sbiadiscono, per restare a ciò che dice Andrea.
          Andrea: Tu lo sai però che la Storia non risarcisce, vero? C2-36 sarà sempre ‘L’uomo bullone’, fuori dal tendone non esisterà per la gente. La Storia ha bisogno di Vespa che la scriva – con in mezzo «spot di bambini di donne e motori» – e dia i nomi alle cose; la gente ha bisogno dell’imbonitore da circo che la rassicuri perché non ha nessuna intenzione di scegliere la propria strada. Lo sai questo vero? Perché il personaggio che stiamo scrivendo lo sa benissimo. 
       Paolo: Lo sa, e ora lo so anch’io grazie a lui. 


giovedì 3 marzo 2011

Le storie di Cristiano Angelini

Caro diario,
oggi parlerò dell’ultimo – e primo – album di Cristiano Angelini: L’ombra della mosca. Cioè, un momento, il buon Angelini non me ne voglia ma, in realtà, parlerò dell’album per parlare dei testi delle canzoni.
 Perché ne parlo? Perché non se ne può più. Perché oggi non si fa altro che dire che la canzone è d’autore quando «ha buoni testi», e allora per dimostrarlo si mette in fila come esempio un discreto numero di parole che dovrebbero essere poetiche, assonanti o sinestetiche e degne del «Quand(a) si ppoet!». Non se ne può davvero più!

Una volta per tutte: la canzone d’autore non è tale quando ha bei testi, semmai quando si devono stare a sentire, che già è una cosa diversa. La canzone d’autore è un linguaggio, un modo di esprimersi come l’italiano, i cartelli stradali o le bandierine in una pista d’atterraggio: se una bandierina è un po’ più sbiadita non parla un altro linguaggio.

Una delle cose che da sempre caratterizza le canzoni dei cantautori è la narratività, anche quando il brano è descrittivo nelle intenzioni. Si racconta una storia, è questo che rende ‘letteraria’ una serie di parole scelte e messe in fila non per farle leggere su una pagina bianca, ma per cantarle. Questo, per esempio, fa Angelini nel suo disco: storie e ritratti da L’iscariota ad Aisha la maga, fino a quelle in cui si racconta uno stato d’animo. Non solo: il punto forte di canzoni come queste è che hanno una robusta e viva struttura metaforica, cioè che parlano della realtà tramite la realtà stessa; credo sia questo il senso del riferimento al «poetico realismo» di cui si parla nello Statuto del Premio Tenco. Prendiamo come esempio La polvere dei guai: è un bozzetto preciso, un racconto con un tempo interiore, limpido, in cui si parla di una situazione che pure è irreale. Credo che la metafora sia la figura retorica principessa, la migliore, e invece troppo spesso la si confonde con l'analogia. No: bisogna riscrivere il mondo avendo il coraggio di dare riferimenti precisi, plastici, narrativi, sia con le parole che con la musica.

E invece no, sembra che la supposta – che già... voglio dire: è chiaro come termine no? – bellezza dei testi decreti il genere. Questo purtroppo influenza anche i ragazzi che scrivono canzoni, e sposta la loro attenzione, più che sull’idea di fondo, sull’apparenza testuale. La struttura fonica, metrica, quella semantica non immediatamente rimandabile al comune significato delle parole, sono elementi che prescindono dalla consapevolezza dell’autore: le canzoni o le sai scrivere o no, e non è ‘abbellendo’ il testo che fai canzone d’autore.
Oggi è purtroppo tempo di impressionismo. Le canzoni principalmente parlano di interiorità, seguendo il maledetto assioma che dice che la canzone non può che dare un’impressione, che la musica non può che dare sensazioni inspiegabili, così senza accorgersene si scrivono testi che non parlano, e che quindi non hanno bisogno di qualcuno che ascolti. Sono testi che si accontentano di violentare apparentemente il linguaggio italiano omologato, quando invece ripetono all’infinito formule trite di attesa di poesia. L’impressionismo, se immotivato, è una malattia.

Per fortuna c’è invece chi usa un passaggio I-V o una frase banale ma in minore come si userebbe una ‘a’, come si userebbe – che so? – un complemento di luogo; c’è ancora qualcuno che, tramite un’organizzazione diversa da quella del mondo e da quella verbale, usa il mondo e le parole per raccontarci cose da raccontare.
Per chi vuole ascoltare.
E a culo tutto il resto!

Condividi l'articolo