mercoledì 13 aprile 2011

Pino Marino, la vera storia di 'Non ho lavoro'.

Pino Marino. Foto Simone Cecchetti.
In riferimento a ciò che scrissi su questo blog per le canzoni di Cristiano Angelini, di seguito parlerò del brano Non ho lavoro di Pino Marino, contenuto nell’album Acqua luce e gas (Fandango, 2005).
Ricapitoliamo: la canzone d’autore è un linguaggio, non una canzone con parole ‘abbellite’ – questo è il punto di partenza –; è un linguaggio tramite il quale dire delle cose, raccontarle, in maniera diversa da come fa il mondo. Proprio in Non ho lavoro abbiamo un esempio lampante del fatto di usare immagini metaforiche non per una vuota apparenza, ma seguendo una modalità coerente che trovi il suo giusto significato proprio nel racconto e nella struttura della canzone.

Non ho lavoro è un grido che si serve sottilmente di una ironia amara nel ritornello «Non ho lavoro quindi non ho paura di perdere il lavoro!». Il protagonista non ha lavoro, ok, e porta a spasso il cane dell’inquilino sotto; nell’incedere del testo a questo punto si passa dalla vita precaria, che pure rappresentava il centro dell’esistenza del protagonista e del racconto, a una staffeta di situazioni vorticose che vedono al centro i soldi: una rincorsa schizofrenica e ripidissima che spinge sempre più in là la mente del protagonista, una frenesia che porta a immagini irreali.

«Ho una vita da condurre con due banconote azzurre
con sopra scritto 20, 20 e 20 fa 40
e a me che serve 100 ne mancano 60,
a te serve 300 e il fatto va a finire in banca,
a lui serve 3000 e già gli manca una pistola,
a chi serve 300.000 manca una carriola
di banconote gialle che il vento porta in aria
al posto delle foglie e il vento le raduna
le conta le riconta ma ne manca sempre una»

Ecco il primo esempio significativo: l’immagine del vento e delle foglie è una metafora giustificata dall’alienazione a cui porta quella continua rincorsa precaria dell’esistenza. A ben vedere, la sostituzione dei soldi alla vita – rappresentata dalle foglie –, cioè farli diventare motivo dell’esistenza al posto della vita stessa, è emblematica, perché per realizzarla ci si serve di un elemento naturale: è come se la vita nella sua forma più naturale diventasse altro, altro che non ci appartiene ma ci governa, qualcosa di alieno e innaturale. Ecco a cosa mi riferivo, per esempio, nell’articolo sull’Angelini quando dicevo che «bisogna riscrivere il mondo avendo il coraggio di dare riferimenti precisi, plastici, narrativi». Cioè, non è che pensassi a questa canzone scrivendolo, sia chiaro, solo che questo brano calza a pennello.
Ma andiamo oltre.

Dopo il ritornello si riprende nelle strofe la descrizione di una giornata più o meno sconclusionata: è un vero e proprio racconto, con una trama, un intreccio, in cui il protagonista si addormenta e sogna. E cosa sogna? Inevitabilmente, scandita da un incedere regolare e deciso, sogna la sua ossessione, l’immagine schizofrenica dei soldi portati in aria dal vento: 

«Rientro col botto alle otto
rincaso col bassotto dell'inquilino sotto
per tutti e due già piove, prendo sonno per le nove
così mangio domani e sogno l'inventore
che ha prestato le sue mani per sostituir le foglie
con le banconote gialle da 50 sopra ai rami
chi ha prestato le sue mani per sostituir le foglie
con le banconote gialle da 50 sopra ai rami?
chi ha prestato le sue mani per convincere gli umani
ad inseguir le foglie gialle appese sopra ai rami?»

Quello che qui ci interessa comprendere è che Pino Marino usa l’immagine finale onirica, con le mani, i rami, le foglie non ‘per abbellire’ il testo, ma il tutto è precisamente giustificato dalla struttura della canzone, addirittura anticipato da una metafora precisamente plastica e motivato dal senso di assuefazione e spiazzamento creato dalla situazione precaria e disumana del protagonista.

La canzone è un racconto di una giornata che descrive l’assurdità di una umanità disumana, trasformata in un’orda impazzita di persone che vivono per il denaro, arrivandoci per gradi, donando narratività persino alla descrizione o, meglio, prima introducendo gli elementi (i soldi, il vento, le foglie) poi organizzandoli all’interno della storia e alla fine tirando le somme.
Il tutto senza far capire che in realtà la vera narratività non sta affatto nella descrizione della giornata («mi alzo [...] esco [...] rientro [...] prendo sonno») ma nell’aver prima dato all’ascoltatore gli elementi – connotati dalla musica e dal ritmo martellante, dal grido sguaiato del ritornello – e poi averli organizzati per la costruzione dello scenario macabro ed etimologicamente incredibile in cui il frutto della terra è il denaro e tutti gli corrono dietro. Qui sta la vera narratività del brano, sono questi il prima e il dopo che ci interessano per il senso della canzone, e fortunatamente riusciamo solo ad intuirlo.
Quasi quasi cancello tutto...

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