sabato 28 maggio 2011

'Habemus Papam' è un film di parola


Non solo canzone d'autore. Habemus Papam di Nanni Moretti è un film di parola. Promette e mantiene. Perché? Soprattutto perché, presentandosi come un’enorme umanizzazione dell’istituzione ecclesiastica, si pone agli spettatori come propedeutico al logos, al discorso del nuovo Papa dal balcone e, quindi, al verbo.

«In principio era il verbo» (Gv, 1,1), ecco: in questo film al verbo ci si deve arrivare per gradi, dopo che per l’intera pellicola abbiamo visto cardinali insicuri, claudicanti, permalosi e agonistici; in una parola ‘umani’. Il discorso finale dal balcone si può dire che venga fuori come dalla roccia informe dell’afasia.

Probabilmente le scene che più colpiscono – uniche nel proprio genere – sono quelle in cui il nuovo Papa in borghese si aggira per una Roma fremente ed eccitata: un signore anziano e disarmato, in cui il regista recupera le istanze del cinema della realtà per rappresentare l’essenzialità dell’Uomo. 
Il Papa è rappresentato come l’ultimo disgraziato di questa Terra che ha nella parola l’unico strumento incorrotto per interagire col prossimo. Si prendano a esempio il dialogo con la psicanalista Margherita Buy che ignora la sua occupazione o le battute di Cechov tanto amate da ragazzo: proprio Freud diceva che è la parola l’unica arma per aiutarci nel far riemergere il rimosso, il verbo si fa carne in religione, si fa vita, immagini, suoni e stacchi di montaggio che indagano le viscere dell’insicurezza nel film di Moretti.

Così, dopo il travaglio palingenetico, dopo il depauperamento e mondata ogni fuorviante ambizione, si è pronti per il discorso finale di un monumentale Michel Piccoli, vero e proprio esempio in cui la parola si accorda e brilla tra gli altri elementi segnici del film. Un miliardo di persone ad ascoltare un solo uomo che richiama e rivendica la propria umiltà, rifuggendo sofismi inutili: «La Chiesa ha bisogno di grandi cambiamenti […] bisogna che abbia per tutti amore e capacità di comprensione» o, ancora: «Ho capito che non posso condurre, ma sono uno che deve essere condotto». Sono parole semplici ma purtroppo non scontate, in cui molta gente si rispecchia, quindi umane, di assoluta empatia e solidarietà.

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