lunedì 8 agosto 2011

Botteghe d'Autore e le belle canzoni degli emergenti

Sono di ritorno da Albanella, in provincia di Salerno, dove sono stato in giuria al Premio Botteghe d'Autore.
Senza dubbio è una delle manifestazioni più trasparenti e, cosa indispensabile, organizzata da gente col palato fine per ciò che riguarda le selezioni dei finalisti.

Per tutti cito Ivan Rufo, che è il direttore artistico ed è nato il 7 novembre del 1979, come me (informazione del tutto inutile, ma questo è un blog, fra l'altro il mio).
Il concorso è stato vinto, strameritatamente, da Emanuele Bocci; secondi i Diversamente Rossi; miglior testo Rebi Rivale. Da segnalare anche Marialuisa De Prisco e Alex Bartolo. Questa è pura cronaca, ma io voglio parlare d’altro.

Voglio parlare del fatto, condiviso da più d’un giurato, che il livello artistico dei dieci finalisti era davvero molto alto. Ok, Ivan fa il proprio mestiere in modo certosino e ha alle spalle una cultura importante della migliore canzone d’autore italiana; però è da un po’ di anni che giro per le varie manifestazioni e spesso la qualità lascia a desiderare, tranne per quei due o tre nomi che poi si dividono i premi. No, il livello ad Albanella era alto, sia nei testi che nell’intenzione linguistica (intendo linguaggio-canzone) della musica mai gratuita, più o meno bella.
È precisamente di questo che voglio parlare qui: del livello degli ‘emergenti’ e di questa bruttissima e ipocrita parola che ha fatto comodo fino a oggi a molti organizzatori di rassegne e concorsi.
Partiamo proprio dalle parole di un emergente.

Qualche settimana fa a rinfocolare (non è che le metafore debbano usarle solo gli artisti) questi miei ragionamenti è stato un passo di una intervista di Paolo Fiorucci, questa (la scrittura su internet è proprio un altro codice), e in particolare questo passo:

Ce la cantiamo e ce la suoniamo. Non c’è alcuna selezione, basta pagare per autoprodursi un disco, se sei bravo appena oltre la media con un po’ di conoscenze avrai un numero di recensioni sufficienti a farti esistere come emergente. Comincia così il Limbo dell’emergenza, che dura almeno tre vite e mezzo. Non conosco nessun cantautore emergente che sia uscito da questa condizione e che mi abbia detto: “Dopo anni di gavetta riesco ad arrivare a fine mese con le mie canzoni”. La canzone d’autore nel 2011 è un hobby costoso.

Forse il passo mi ha colpito e mi è piaciuto perché è tutto limpidamente vero e reale, anche se non sempre il vero colpisce, quantunque limpido; quasi mai, poi, mi piace la realtà in quanto tale. No, c’è dell’altro. C’è un movimento lucido delle sinapsi vissuto sulla propria pelle, quella di Fiorucci e – del tutto incidentalmente – quella mia, da frequentatore di giurie di concorsi: «Non conosco nessun cantautore emergente che sia uscito da questa condizione». Bene, nemmeno io.
Per fare esempi bisogna prendere il meglio e, allora, parliamo di Piji, il più premiato cantautore italiano, uno che i concorsi li ha vinti tutti. Piji è il migliore di tutti gli emergenti fino a che non si capisce che Piji non è un emergente, perché la parola è brutta e non ha senso. Piji è un cantautore, uno fra i migliori, perché se si continua con questa storia dell’emergente uno rimane tale fino a sessant’anni, visto che il nostro Paese è malato di forma mentis iconico-televisiva, che crea stagnazione mentale e la inchioda alle parole: le parole, le etichette, si fissano addosso alle persone, a un gruppo, a una comunità e non si schiodano, diventano intrinseche al senso di quelle persone, e allora Piji è un emergente, De André un poeta (possibilmente santo), Gaber lo segue a ruota, Pasolini un profeta, i cantautori annoiano, Baglioni è melenso, Morgan è un genio ribelle. Hai voglia poi a essere altro.

In una situazione culturale decente Piji, a trentadue anni, avrebbe già pubblicato almeno un paio di dischi e riempirebbe gli anfiteatri come fa Capossela. Piji non è meno bravo di Capossela, quindi – muovendosi per sillogismi taciti – vincere i concorsi non serve a granché.
Magari farli serve, ma non più che come proposta artistica di fronte a degli addetti ai lavori che si spera siano competenti.

Oggi credo che i concorsi siano solo un ottimo modo per conoscersi tra gli addetti ai lavori, a iniziare dagli artisti. Questa è l’ultima riflessione che mi è venuta dopo Botteghe, e torniamo all’inizio: fino a pochi anni fa il livello era decisamente più basso. Azzardo dicendo che il ruolo fondamentale per questo miglioramento artistico, paradossalmente, è tanto dei concorsi quanto di internet.
Andiamo con ordine: per i concorsi si sarà intuito il perché leggendo fino a qui e spero si capirà alla fine. Per internet il discorso è ancora più preciso; è un discorso di modelli. Internet ha fatto sì che si creassero due strade ben nette: quella del mainstream e quella no, che mina alle fondamenta persino del concetto stesso di popular music. Si pensi al fatto che la canzone moderna è una forma espressiva della popular music, che storicamente – e geneticamente – risente del rapporto con i media, per via dell’indispensabile diffusione tramite questi ultimi. Con questi presupposti ci sono diverse strade per fare canzoni, e un ottimo elemento di differenziazione è dato dal livello di influenza che l’esigenza di diffusione mediatica ha nella forma: un estremo è il Pop; un altro, in antitesi, la Canzone d’Autore.

Quello che è successo negli ultimi dieci anni tramite internet è che ci si è sganciati dai media tradizionali, che quindi non influiscono sulla forma. Personalmente credo di aver già spiegato il motivo qui ma, al di là delle cause, gli effetti sono evidenti: chi fa musica non ha più modelli da mainstream, che inevitabilmente vedevano nell’esigenza di diffusione mediatica un elemento determinante per la forma artistica; la portata di questa rivoluzione è epocale perché persino nomi storici della canzone d’autore erano spesso determinati da quest’esigenza verso i media, quindi proprio nessuno aveva modelli esenti: ora il modello è il live di un altro concorrente conosciuto in quel concorso, il suo modo di scrivere i testi, le sonorità di un gruppo indipendente mai apparso in TV – medium che è il Male per la canzone –, il modo di creare le immagini di quel cantautore mai passato su Radio Deejay.

A questo è dovuto, credo, l’innalzamento medio della qualità artistica. Ma si può fare di meglio: più che innalzamento della qualità artistica si dovrebbe parlare di consapevolezza linguistica, di consolidamento di un linguaggio artistico altro, che può bellamente fregarsene di cosa possa o non possa funzionare: pura esigenza espressiva.
Poi il linguaggio lo si può usare bene o male, si possono scrivere belle o brutte canzoni, ma parlare la stessa lingua aiuta anche ad avere parametri comuni e a valorizzare i pochi – per fortuna – che con quel modo di esprimersi descrivono ciò che non leggiamo con i nostri occhi.




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venerdì 5 agosto 2011

Marco Ongaro, Max Manfredi e i Cantautori Novissimi.

Passo tratto dal libro Cantautori novissimi. Canzone d'autore per il Terzo Millennio, Bastogi, Foggia, 2008, pp. 51-56:

La neo-avanguardia della canzone d’autore è tale  perché, tramite internet e per via del fatto che i rapporti con le majors sono ininfluenti o assenti, i cantautori per la prima volta nella storia possono creare in totale indipendenza artistica; si è perso molto in senso promozionale ma si è guadagnato altrettanto in senso artistico – e, va da sé, quello a me interessa in questo frangente –, e nemmeno l’avanguardia della canzone partita dagli anni Sessanta poteva permetterselo in maniera così totalizzante.
L’opera che descrive artisticamente il 'giro di boa' è L’intagliatore di santi del 2001, di Max Manfredi; quella che rappresenta, per motivi artistici e umani, l’inizio di questa nuova consapevolezza si può invece individuare nell’album Dio è altrove del 2002, di Marco Ongaro. 

Dell’album di Manfredi è importante citare due canzoni che si intitolano rispettivamente Freddo e L’intagliatore di santi, brano che dà nome all’intero disco; sono la prima e l’ultima dell’opera: nella prima l’autore descrive l’avvertimento delle sensazioni di chi è effettivamente 'sopravvissuto', come leggeremo tra breve nelle parole di Ongaro, a un periodo di decadenza e naftalina delle possibilità artistiche. La canzone si apre inequivocabilmente con questo verso da day after:

È freddo, le dita son fredde e sveglian le corde di questa chitarra. [1]

continuando poi nella descrizione di chi prefigurava un trattamento dovuto, una prassi riservata ad artisti predecessori che non sarebbe mancato in un clima non investito dall’ellissi discografica:

Supponevo che sarei caduto ma in un altro modo, già, e per vanità:
mi vedevo cadere con lo stile e il mestiere di un cavallo a Cinecittà,
mi vedevo cadere con la diaria e il mestiere di un cavallo a Cinecittà.

Nella canzone L’intagliatore di santi, invece, si descrive una nuova era, dopo la fine e la palingenesi; notare come in questo modo l’intero corpo dell’album si ponga come una specie di “attraversamento del punto di svolta”: 

È da poco che sono in città
e mi sono ambientato da poco,
tra parchi, rovine e caffè
e le mura che danno sul vuoto.  [2]

 Il brano prosegue con una serie di immagini da sabato del villaggio – con la decisiva consapevolezza acquisita, però, di trovarsi in un lunedì –, con una tranquillità creatrice, morbida e amena, non a caso in un ruolo d’artigiano.

Esperto come sempre nell’avvertimento e nello smascheramento dei paradossi di ogni pseudo-apocalisse, Manfredi rivendicava nella prima canzone dell’album – anche qui, non a caso, in un album pubblicato dopo un lungo periodo di inattività discografica personale durata sette anni – una fiera appartenenza artistica e prefigurava nell’ultima ciò che si sarebbe fatto emblema consapevole in Dio è altrove di Ongaro.
Leggiamo dunque, dalla canzone eponima della stessa Dio è altrove, pochi ma emblematici versi:

Ciò che si crede davvero importante,
veduto all'ombra di un sole minore,
può risultare un po' deprimente
se lo si guarda da molte ore.

E se ti credi del tutto innocente
- una pedina e chissà chi ti muove -
non c'è nessuno davvero innocente,
cammina, alzati ché Dio è altrove! [3]


Ongaro ha vissuto il periodo ombratile per troppo tempo, ha smesso nel 1995 dopo aver pubblicato un album dal titolo significativo come Certi sogni non si avverano: appena gli hanno dato una nuova possibilità, a condizioni sue, si è alzato ed ha indagato quell’altrove. Come lui la canzone d’autore. 
Per introdurre questo momento che, comprensibilmente, rappresenta quello decisivo del mio discorso e dell’intero mio saggio, mi servo delle parole dello stesso Ongaro, rilasciatemi in una recente intervista. Mi scuso per la lunghezza del brano in citazione, ma il lettore comprenderà l’importanza del peso di ogni singola parola:

D – Torniamo al periodo di cinque anni in cui sei stato fermo. Puoi parlarmi della gestazione di Dio è altrove? Quali sono stati i motivi che ti hanno convinto a scrivere, pubblicare e a cantare ancora canzoni in prima persona dopo lo stop? Per me quell'album rappresenta l'inizio della neo-avanguardia e l'emblema dei Cantautori Novissimi.
R – Realizzando Lasciatemi vivere per Grazia De Marchi nel 2000 mi sono accorto che non solo esisteva la possibilità di riprendere in mano penna e strumento musicale per fare arte 'su commissione', raccontando l'altrui vita e gli altrui sentimenti e trovandovi nuova linfa espressiva, ma che c'era pure la possibilità di un collegamento totalmente autonomo con la piccola industria, nella persona di Renato Venturiero e della sua Rossodisera, all'epoca distribuita da EMI. Venturiero aveva stampato il cd della De Marchi con piglio collezionistico, dopo che l'avevo interamente inciso ed arrangiato. Praticamente aveva accettato il lavoro a scatola chiusa e questa era la prima volta che mi capitava, se pensiamo che Archivio Postumia era ancora lontano dall'essere pubblicato proprio perché inciso e arrangiato in perfetta autonomia nel 1990.
Era evidentemente cambiato qualcosa. Non capivo cosa avesse provocato il cambiamento, ma ne avvertivo pienamente l'effetto.
Ne ho avuto conferma quando ho proposto sempre a Venturiero, l'anno successivo, di pubblicare l'album Shakespeariana che avevo scritto e arrangiato per Giuliana Bergamaschi. Quando gli ho dato il master mi ha detto, con una smorfia ironica da cavaliere senza macchia: "Nessuna radio trasmetterà mai neanche un secondo di queste canzoni". Lo diceva come sfogo, mentre accettava senza condizioni di pubblicarlo come aveva fatto col precedente.
Evidentemente il suo contratto di distribuzione con la Emi lo poneva in una posizione estremamente autonoma, ovvero gli avrebbero distribuito (o finto di distribuire) qualunque cosa lui avesse deciso ed era questa autonomia a riverberarsi nella mia nuova libertà di creare sapendo che sarei comunque stato pubblicato.
Shakespeariana è stato completato nel settembre 2001 ed è uscito nel novembre di quell'anno. Nel luglio dello stesso anno il chitarrista Roby Ceruti, sulla spinta di un altro produttore particolarmente vivace in quel momento, Marco Rossi di Azzurramusic, mi chiese di diventare la voce di un nuovo gruppo rock e di scrivere le canzoni necessarie a farne un cd. Il momento era davvero magico: scrivevo quello che volevo sapendo che sarebbe stato pubblicato come piaceva a me e adesso mi si chiedeva di tornare a cantare su un genere che già avevo sperimentato in passato e il tutto in assoluta libertà.
Che i dischi vendessero o meno non era importante quanto superare la condizione di "cantautore postumo in vita" dando alle stampe, quindi alla memoria culturale del Paese, l'espressione della mia arte così come la sentivo e nel momento in cui la sentivo! L'oggetto CD era destinato ad essere venduto ai concerti, non contava molto. Ma contava la produzione, che un produttore pagasse sala d'incisione e musicisti per realizzare un master offrendo forma compiuta all'idea creativa. Ero nelle condizioni dell'artista che lavora sapendo di avere comunque dei collezionisti.
Nello sfacelo totale della discografia, si aprivano spiragli individuali molto stimolanti, spiragli che in passato erano appannaggio solamente di chi aveva avuto un successo tale da poter dettar legge all'industria. Quindi, appena finito di scrivere l'ultima canzone di Shakespeariana, con l'appuntamento a settembre per inciderla e procedere ai missaggi dell'intero master, sono partito alla volta della Calabria con l'idea di scrivere il cd del mio "ritorno in voce".
Ho fatto tappa a Lecce, a casa di un giovane cantautore che avevo conosciuto da poco, ancora inedito, di nome Alessio Lega, e lì sono stato raggiunto da Max Manfredi per una due giorni/due notti di canzoni ininterrotte nella veranda di casa Lega. Il fermento era nell'aria. Due esausti amici che negli anni Ottanta avevano mosso i primi decadenti passi nella canzone d'autore di fine secolo si ritrovavano insieme alla tavola di una nuova leva piena di entusiasmo. L'idea palpabile era che fossimo sopravvissuti e finalmente potessimo ricominciare.
Dopodiché andai in Calabria, comprai una chitarra e scrissi in un mese Dio è altrove. Era inevitabile che l'album grondasse entusiasmo, smitizzazione, disincanto ma anche segni pulsanti del fermento che stavamo vivendo. La canzone destinata a chiuderlo, Il conte Max di Genova, dedicata all'amico Manfredi, era espressione di quella nuova libertà. Dopo aver parlato di miti e memoria tradita, dopo aver assodato che Dio era altrove, che Shakespeare poteva risvegliarci, che Ligabue era un pittore e Merlino un mago senza poteri, dopo aver giurato di non giurare più di smettere di cantare, offrivo la mia visione di un mito sconosciuto a molti, un autore straordinario con cui avevo avuto la fortuna di condividere parte del mio tragitto artistico. Creavo un mito nel cantarlo, poiché da sempre i miti esistono perché vengono cantati. Chiedevo agli ascoltatori, fossero pure tre, di riconoscere l'esistenza di un mito non consacrato dalle "majors". Contribuivo alla memoria dopo averne lamentato il tradimento.
Il cd è uscito nell'ottobre dell'anno successivo ed ha rappresentato il mio ritorno sulle scene, un ritorno motivato da una sola condizione: la libertà. Qualora questa libertà venisse a mancare di nuovo, di nuovo smetterei di cantare.[4]

La stessa libertà che, da buon artigiano, permette di poter dire a Manfredi in L’intagliatore di santi: ‹‹intanto che poso il lavoro/ e bevo una birra alla spina››, descrivendo l’attività più quotidiana di questo mondo, in quel contesto, però, precisamente poetica. Attenzione: le mie non sono solo congetture filologiche di un critico; tutto è inequivocabile, tutto rappresenta un movimento cosciente che fa di Dio è altrove la prima opera sicuramente consapevole del nuovo corso e adeguato manifesto d’apertura:

Il conte Max di Genova
vive di recente 
molto attivamente
la sua libertà che incanta.[5]

Possiamo semplificare in questo modo questo snodo: il disegno d’apocalisse e la prefigurazione delle condizioni di ripartenza con l’album L’intagliatore di santi di Max Manfredi e l’effettivo movimento, la ri-partenza in Dio è altrove di Marco Ongaro. Di certo: L’intagliatore di santi e Dio è altrove sono due opere mostruosamente riuscite. 
‹‹Nei cardini non ci sono tarli››[6], per dirla con Enzensberger che parla proprio di avanguardia.



[1] M. Manfredi, Freddo (ma non conta niente), in L’intagliatore di santi, Storie di note, 2001.
[2] M. Manfredi, L’intagliatore di santi, in L’intagliatore di santi, Storie di note, 2001.
[3] M. Ongaro, Dio è altrove, da Dio è altrove, AzzurraMusic/D'Autore, 2002.
[5] M. Ongaro, Il conte Max di Genova, da Dio è altrove, AzzurraMusic/D'Autore, 2002. La descrizione sarà precisa, puntuale, metaforica e perfettamente poetica in Max Manfredi, nella canzone Il molo dei greci, pubblicata in Live in blu, per Storie di note, 2004: ‹‹Questa sera qui a Molo dei greci si sconta la pena/ d’aver troppo creduto al vangelo pagano del fado/ fatto a pugni con troppi fantasmi all’Osteria del Rebado/ perso tempo incollati alle onde delle radio a galena./ Ed il Re degli abissi – se trovo chi me l’ha presentato… –/ m’ha ingaggiato a cantar nelle squadre dei suoi trallallero/ poi m’ha fatto firmare un impegno che già ero ubriaco››. Viene descritto il dorato mondo della discografia ufficiale, che cozzava con l’autenticità delle future esibizioni dal vivo, quando ancora si elemosinava controvoglia un passaggio in radio – fra l’altro ‹‹a galena››, quindi sorpassate, forse da internet – che non ci sarebbe mai stato, discografia ufficiale a cui era anche possibile arrivare ma che avrebbe distribuito male il disco e mai lo avrebbe pubblicizzato.
[6] M. Enzensberger, Letteratura e/o rivoluzione, Feltrinelli, Milano, 1970, p.23.

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