mercoledì 9 luglio 2014

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giovedì 6 marzo 2014

DIFFERENZA TRA CANZONE POP E CANZONE D’AUTORE

(paragrafo tratto dal mio libro Nudi di Canzone. Navigando tra i generi della canzone italiana attraverso il valore musical-letterario, Zona, Arezzo, 2010)


Premessa di metodo


È importante premettere una cosa: il metodo qui preso in considerazione si riferisce alla "Teoria della comunicazione" di Jakobson. Riferendoci qui a Jakobson non parleremo di funzioni della lingua a cui lo studioso russo fa riferimento, ma ci limiteremo esclusivamente a seguirlo fino a un certo punto sulla strada da lui tracciata; lo seguiremo fino a che descrive i fattori della comunicazione. Jakobson, infatti, nel suo studio si riferisce alla comunicazione verbale: questa prevede delle caratteristiche comuni, dei meccanismi che presentano sempre codice, messaggio, contesto, canale, destinatario e contatto. La trasposizione di questi fattori nella comunicazione di una canzone non crea problemi, quello che ci metterebbe decisamente fuori strada andando avanti sarebbe invece la funzione, lo scopo a cui servono questi fattori nella differenza tra comunicazione verbale e quella di una canzone. No: a noi qui interessa sapere quali fattori vengono maggiormente chiamati in causa dalla creatività dell’artista, nel momento in cui produce qualcosa che dovrà diventare un atto comunicativo particolare come, appunto, la canzone.
Semmai, più che lo scopo della comunicazione e quindi la funzione, quello che a noi serve per designare i generi dal punto di vista semiotico è individuare quale fattore maggiormente influenza la creazione del futuro ‘atto comunicativo-canzone’ in ogni differente genere: nella canzone pop e nella canzone d’autore.


Differenza tra canzone pop e canzone d'autore


La canzone pop, a livello semiotico-testuale, in quanto genere vincolato all’immagine iconica visiva collettiva e alla dialettica che quella auditiva ha con essa, presenta per sua stessa natura un codice volubile e sovrastrutturale e un messaggio di tipo ‘bloccato’, perché dipendente dal contesto e dal destinatario: dall’immagine. Del mittente non è importante l’autenticità del rapporto tra se stesso e il codice, quanto l’immagine collettiva. L’autore di una canzone pop sa cosa non può non dire e sfrutta di conseguenza codici prestabiliti e riconoscibili, non come unico veicolo adatto per tradurre il mondo e quindi come scelta di linguaggio – esigenza espressiva – bensì come linguaggio comprensibile e modo per arrivare. Linguaggio come necessità comunicativa, non come atto linguistico per il quale è importante il codice stesso.  
La canzone d’autore, in quanto genere che lavora principalmente sul messaggio non ‘bloccato’ e sul codice, presenta dunque tre differenze decisive rispetto alla canzone pop:
1) Nel codice, non volubile ma, come in tutti gli altri generi definiti principalmente dal codice stesso, ‘bloccato’ perché scelto come esigenza espressiva per tradurre il mondo e farne metafora, lavorando quindi su di esso e riflettendoci anche metalinguisticamente, fino a portare alle estreme conseguenze la sua potenzialità espressiva nel caso delle avanguardie.
2) Nel messaggio, che, non essendo in alcun modo vincolato, riflette e traduce temi derivanti esclusivamente dal modo dell’autore di vedere il mondo, il proprio contesto, fino a che, in casi estremi, l’autore non diventi destinatario e mittente in un sol colpo[1]. Sembra ovvio che solo la canzone d’autore, visti i presupposti, possa permettere perciò il crearsi di una poetica dell’autore.
3) Nel presupposto indispensabile dell’autenticità del rapporto tra messaggio, codice e mittente. Attenzione: autenticità da intendere non nella verità dei fatti[2], ma nell’immancabile presupposto che l’opera d’arte venga fuori dal rapporto stretto, inscindibile e osmotico tra  questi tre fattori. La bontà di questo rapporto – quindi ogni valutazione estetica – dipenderà da nient’altro che non sia la capacità di traduzione dell’autore. È importante la parvenza di naturalità e consequenzialità che l’autore riesce a dare al rapporto tra la propria emozionalità (o coinvolgimento), il messaggio e la forma: solo in questo modo, con questa parvenza di consequenzialità, i grandi artisti ci danno l’impressione che tutto sia al proprio posto in quell’opera, che il mondo non possa essere che così, che siano riusciti a svelarci un mondo nascosto e che pure ci descriva in maniera tanto mirabile, dandoci una alternativa, una traduzione che dica la stessa cosa del mondo ma in modo diverso; e il modo diverso fa la differenza[3].
Qui c’è una differenza cruciale con la canzone pop: nel fatto che in quest’ultima l’autenticità traduttiva (quella del trittico mittente-codice-messaggio) viene a mancare, mancando un codice che la caratterizzi e non avendo possibilità di movimento per il messaggio. Perciò il codice sarà ogni volta differente in base al destinatario e al contesto. Così saranno la funzione conativa o referenziale a fare la differenza.
Per questi motivi, non sarà la vicenda traduttiva l’oggetto della creatività, ma il suo rapporto con lo scenario referente. In questo caso allora, la bravura dell’artista starà nel saper creare un rapporto originale ma comunque riconoscibile tra icona musicale e icona visiva, lavorando sulla costruzione di una relazione in cui la prima interagisca attivamente con la seconda.
Insomma: non si parte dall’opera e dall’autore. Se il discrimine tra pop e d’autore è nell’autenticità, è rintracciabile già nell’etimologia del termine: autenticità deriva da concetti come agire da sé medesimo, entro se stesso. Per dirla con Max Manfredi: «Questa è la differenza fondamentale tra la canzone d’autore e quella no: che l’autore sono io»[4]: semplicità disarmante alla quale però, nel nostro caso, era bene arrivare per gradi.
Da qui deriva una differenza fondamentale, forse la più importante tra pop e canzone d’autore: quella tra icona e poetica.
 L’icona è presente nel pop ed è l’immagine che viene fuori dal rapporto tra codice, contesto e destinatario: vede nella propria ripetizione – e nell’indispensabile riconoscimento – ogni volta consumata la fine e il fine stesso del proprio ruolo.
La poetica è presente nella canzone d’autore e viene fuori dal rapporto tra mittente, codice e messaggio: vede la ripetizione non nel messaggio in sé ma soprattutto nel modo di essere veicolato, creando ripetizione in ogni momento fruita[5], non consumata, che perciò si rigenera ogni volta in forme diverse e – a ben vedere – dribblando ‘scientemente’ l’essenza stessa della ripetizione. Non è l’azione del ripetere ad essere imprescindibile, ma la traduzione, tramite lo stesso messaggio o tramite messaggi diversi.  Insomma: l’icona è la scelta giusta e che funziona, che si ripete in quanto giusta; la poetica è una scelta personale tra le tante possibili, che si ripete in quanto proprio modo di fare.
Siccome il concetto di icona non differenzia solo la canzone pop dalla canzone d’autore, ma un po’ da tutti i generi, sarà bene dedicare un paragrafo parentetico per spiegare in che modo questa ripetizione si presenti nella storia, soprattutto sotto il punto di vista delle strutture musicali.






[1] Sembra per esempio questo secondo punto a permettere a Vecchioni di approfondire il tema del doppio, fino a farne un personale vero e proprio topos musical-letterario: canzoni come Milady o Il bandolero stanco parlano di personaggi surreali, riferendosi immancabilmente allo stesso cantautore, acquistando il proprio senso proprio nell’autorialità di rimando, di secondo grado, che parte dal proprio mondo e ad esso è diretto.
[2] Ovviamente non è indispensabile che l’autore, l’artista ‘ci dica il vero’, anzi, spesso la bravura di un artista è tale proprio per la capacità di tradurre emotività a lui lontane nel linguaggio scelto.
[3] Con questi presupposti, essendo il rapporto tra mittente, messaggio e codice elemento strutturale, verrà da sé il fatto che il contesto, il destinatario e gli altri fattori della comunicazione diventeranno sovrastrutturali, perciò il piano di marketing per promuovere la canzone d’autore dovrà partire da ciò che è l’oggetto artistico per scegliere il contesto adatto per proporlo e il destinatario ideale, così come il canale: esattamente il contrario di una strategia promozionale per la canzone pop.
[4] Da una intervista di Paolo Talanca a Max Manfredi raggiungibile all’indirizzo internet: http://www.bielle.org/2008/Interviste/MaxMan_Talanca_int.htm
[5] Per la differenza tra ‘fruire’ e ‘consumare’ in quest’ambito cfr. P. Talanca, Cantautori novissimi. Canzone d’autore per il terzo millennio, Bastogi, Foggia, 2008, p. 12.

venerdì 25 ottobre 2013

Palleggiano endecasillabi



Aprile duemiladue (o duemilatre, non ricordo); mattina.
Chieti. Università. Aula 7.
Il professore di filologia italiana non la finiva più di palleggiare endecasillabi; io stavo lì, a bocca aperta, cercando di capire dove stesse la fregatura. Insomma: alle superiori mi avevano spiegato che ci sono undici sillabe, che una vocale cade e l’altra ne prende il posto, che bisogna contare e andare a capo per bene. Che la dieresi, la sineresi, la dialefe, la sinalefe… Praticamente mi dicevano che l’endecasillabo è roba da poeti, geni, soli, lontani e per niente umani che a tredici anni parlano fluentemente l’ebraico antico. Tu no. Roba loro. Punto.

Ora questo qui – in un’aula 7 piena di ragazze primaverili -, goffamente e fascinosamente sporco di gesso dai polpastrelli al cuore, contava con le dita, rivolto con pratica confidenza alla mia compagna di corso che stava in piedi alla lavagna: «Su su, deve battere con le dita, è così che si contano le posizioni, questa è la metrica! “Nel-me-zzo-de-ca-mmin-di-no-stra-vi-ta; te-rmi-ne-fi-sso-d’e-tte-rno-co-nsi-glio”! Su! Su! Pensi alla musica, al ritmo!».
La poesia era anche mia, per la prima volta. Mi nasceva dalle dita, la prendevo nelle mani, la smontavo e rimontavo.
Palleggiavo endecasillabi.

Ottobre duemilatredici; mattina.
Manoppello. Scuola media. Aula che dà sul cortile interno.
È tutto un battere di dita sui banchi, un’orchestra di percussioni, un miracolo d’Arabona afroeuropeo. I ragazzi della III A passeggiano ne “L’infinito” di Leopardi con la sicumera di un fine semiologo francese, nel chiasso divertito e caciarone di chi, però, è ancora in salvo: «Professò guardi qua, mi ridà! “Ma-se-de-ndoe-mi-ra-ndoi-nte-rmi-na-ti spa-zi-di-là-da-que-llae-pro-fo-ndi-ssima”!»; «Professò pure a me!»; «Professò pure a me!».
Palleggiano endecasillabi.

giovedì 10 gennaio 2013

Musicare GABRIELE D'ANNUNZIO al Lunezia 2013

A 150 anni dalla nascita: musicare Gabriele D’Annunzio  al Premio Lunezia Nuove Proposte 2013.
  
Oltre a Band, Cantautori/Autori e Autori di Testo, "MUSICARE I POETI" è la nuova sezione del Lunezia Nuove Proposte nata nel 2009 e diretta dal critico musicale Paolo Talanca.

Gli autori che vorranno iscriversi in questa categoria dovranno musicare le prime tre strofe della poesia  Aprile di Gabriele D’Annunzio (dal "Poema paradisiaco", 1893).


Le modalità di partecipazione sono le medesime della categoria cantautori (vedi link come partecipare – Nuove Proposte), così come la quota di partecipazione (32 €).  L’impegno è quello che la musica abbinata a questa poesia dovrà essere rigorosamente inedita.  Sarà altresì sufficiente l’invio di un (1) brano, quindi non di due brani come per la tradizionale categoria cantautori.

Per quanto riguarda l’esecuzione l’autore potrà avvalersi della propria voce o di quella di altro interprete, basta che lo renda noto nella scheda di partecipazione.

Tra le opere pervenute una (1) verrà scelta, dalla redazione Musical-Letteraria, per partecipare alla serata finale del Premio Lunezia Big, prevista il  22 Luglio 2013 a Marina di Carrara (MS) .

Tutti avranno comunque diritto ad una analisi della propria opera (così come per la categoria cantautori/band e autori di testo ).

Anche le iscrizioni a questa sezione sono aperte sino al 18 Giugno .


É concesso ripetere versi o passi della poesia, anche come ritornelli, o aggiungere sillabe “di appoggio”. Mettere in musica la poesia comprendendone l’essenza, rispettandone il più possibile la forma. Questa è la sfida.

Per eventuali chiarimenti info: 0187 708181 – 0187 712567 – 347 3065739 – 339 6882301.

Responsabile artistico: Paolo Talanca.
Di seguito la poesia da musicare.

APRILE
(Gabriele D’Annunzio)


Socchiusa è la finestra, sul giardino.
Un’ora passa lenta, sonnolenta.
Ed ella, ch’era attenta, s’addormenta
a quella voce che già si lamenta,
che si lamenta in fondo a quel giardino.


Non è che voce d’acque su la pietra:
e quante volte, quante volte udita!
Quell’amore e quell’ora in quella vita
s’affondan come ne l’onda infinita
stretti insieme il cadavere e la pietra.


Ella stende l’angoscia sua nel sonno.
L’angoscia è forte, e il sonno è così lieve!
(Par la luce d’april quasi una neve
che sia tiepida.) Ed ella certo deve
soffrire, vagamente, anche nel sonno.

martedì 26 giugno 2012

VASCO, IL MALE




VASCO, IL MALE
Il trionfo della logica dell'identico.


A cura di Paolo Talanca e Alessandro Alfieri
Editrice: Mimesis
Pagine: 130 – 12 €
ISBN: 9788857508818


Prefazione di Enrico Deregibus.







Per acquistare il libro su  MimesisEditrice  Ibs  Bol 

Vasco è Vasco, Vasco è un mito e un’icona, impossibile negarlo. Che cosa può fare emergere una trattazione rigorosa e seria rivolta al fenomeno dominante della cultura popolare italiana da oltre 30 anni e alla sua musica? Senza voler fare un attacco sconclusionato e fazioso, Vasco, il Male vuole colmare un vuoto negli studi critico-filosofici, che troppo spesso trascurano l’importanza che fenomeni di tale portata hanno per l’orizzonte sociale nel quale viviamo. Quella di Vasco è stata la voce più seguita, più amata, più idolatrata e imitata degli ultimi decenni, e nessuno come lui può vantare una così sterminata platea di accaniti fan e autentici adoratori di tutte le età; per questa ragione non può essere esente da responsabilità sulla situazione odierna. Consegnandosi alla logica dell’identità perpetuata, ed avendo esaurito il valore artistico di una ponderata corrispondenza tra icona visiva e composizione musicale, Vasco si fa espressione del Male contemporaneo reiterando a prescindere da tutto il suo indiscutibile successo.


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domenica 20 novembre 2011

Baccini canta Tenco: la vita, non la morte

Francesco Baccini è genovese e assomiglia a Tenco. Quando canta le canzoni al piano, soprattutto quelle lente, accenna a una smorfia involontaria che viene direttamente da casa Tenco.
Era circa un anno che dovevo vedere lo spettacolo Baccini canta Tenco: «Porto a spasso Luigi nei teatri…» e l’occasione è arrivata all’ottimo Festival delle letterature dell’Adriatico, a Pescara, in un teatro Massimo gremito.

C’è una cosa di cui ci si accorge immediatamente: Baccini canta le canzoni di Tenco come se stesse nel suo salotto di casa, salotto che non comprende solo il palco, ma anche la platea; questo accade perché il suo approccio è rispettoso ma confidenziale, come se Tenco stesso fosse seduto in un angolo, incuriosito.

Lo spettacolo è scritto dallo stesso Baccini e da Marzio Angiolani, arrangiato e suonato splendidamente alla chitarra classica da Armando Corsi, con scenografie di Marco Nereo Rotelli, con Filippo Pedol al contrabbasso, Luca Falomi alle chitarre, Luca Volonté sassofoni e percussioni e Marco Fadda alla batteria. Alla direzione musicale Raffaele Abbate e alle luci sua maestà Pepi Morgia.

Si parte con Vedrai vedrai e Quando, che sono brani che assecondano le attese di chi conosce Tenco superficialmente, tramite la televisione o ricordi permessi da quel dannato Sessantasette. Questo spettacolo, però, ha come primo intento quello di far capire che Tenco fu prima di tutto uno che smosse le acque, un humus creativo e una manna, passaggio germinale e crisalide per la canzone d’autore italiana. Così, già dalla terza canzone, Baccini mette in atto il suo piano: si cala nel poetico realismo di Tenco, fatto di un dettato quasi prosaico, funzionale a quello che a Tenco interessava in quel periodo: l’immediatezza, con le parole che arrivano dritte come macigni, sia per le canzoni d’amore che per quelle di protesta.

Qui c’è il passo in più, perché l’aspetto connotativo, cioè la verve e l’emozione aggiunta, è trasmessa dalla musica: e in questo spettacolo si suona davvero.
Riattualizzare Tenco, questo è il punto, perché le sue canzoni sono degli scrigni di canzone d’autore più pura. I brani prestano alla Storia testo-armonia-melodia e un riferimento interpretativo, da arrangiare nel tempo e consegnare all’immortalità. E non voglio essere aulico, è che con la canzone d’autore funziona così.
Ecco che dunque si esce fuori dalla logica del beat e si passeggia tra i generi in una giornata di sole. Tre esempi su tutti: La balata della moda in cui Antonio, il protagonista, viene spolverato e riprende vita per rivivere come rivivrebbe oggi uno scritto corsaro di Pasolini; Ognuno è libero, genialmente tradotta in uno ska che scecchera i suoi quarantacinque anni; E se ci diranno – forse il momento più alto dell’intero concerto – regalata a un arrangiamento rock che Tenco non ha fatto in tempo ad usare.

La musica, inoltre, dice la sua sia quando Baccini esegue Mi sono innamorato di te in solitaria, sia quando duetta al piano o alla sola voce con la chitarra di Armando Corsi, sia quando parte la jam dell’intera band, col piacere e la voglia di suonare, perché Tenco nasce dal jazz, dal sax, da una precisa struttura musicale delle canzoni e non da due note in croce che accompagnano i testi.
Così, facendo la spola tra brani come Se stasera sono qui e Cara maestra, Baccini fa conoscere il vero Tenco, inaspettato dal pubblico. In platea si tocca con mano lo stupore dell’attualità dei pezzi di denuncia e il fatto che Tenco fosse un vero agitatore, non un ragazzino scontroso e sconfortato, semmai, appunto, agitato e nitidamente agitante.

Definitivamente: Baccini canta la vita di Tenco, non la morte, perché Tenco è passato alla storia maledettamente per la sua morte, non per le sue canzoni. Ed è una sciagura. Lo spettacolo, infatti, si ferma a qualche settimana prima del Festival del 1967, tant’è che viene eseguita la versione originale di Ciao amore ciao, poi cambiata per esigenze discografiche. Il brano si intitola Li vidi tornare, una canzone di vita, antimilitarista, che parte dalle guerre di ogni tempo, cita chiaramente Bella ciao nel ritornello e prefigura, manco a dirlo, la stagione dei cantautori (per esempio è impressionante la vicinanza strutturale con I commedianti di Vecchioni).

Il congedo è una chicca: Preghiera in gennaio, la canzone che Fabrizio De André dedicò proprio a Tenco, con Baccini alla voce e sola chitarra di Armando Corsi. Anche qui, una canzone macigno per la storia della canzone d’autore (si veda, una per tutte, la recente La piccola amica, di Marco Ongaro), il modo migliore per esaltare ciò che Tenco ci ha lasciato, la sua vitalità artistica e il suo legittimo ingresso nel Paradiso della storia culturale italiana.