domenica 20 marzo 2011

Presentazioni di NUDI DI CANZONE in Campania

Nudi di canzone sbarca in Campania.


Il libro sui generi della canzone italiana, curato da Paolo Talanca e che comprende una preziosa prefazione di Franco Fabbri e diversi contributi di alcuni tra le migliori penne della nuova leva critica musicale, sarà presentato a Napoli, Aversa e Benevento, in tre appuntamenti dal 26 al 28 marzo 2011.



Di seguito dunque il programma completo delle tre giornate, con gli ospiti e gli interventi:






NAPOLI:
Sabato 26 Marzo 18.00 , Libreria Ubik via B. Croce 28.
Saranno presenti oltre all’autore:
Antonio Piccolo (attore e critico musicale) autore del saggio La canzone a teatro, contenuto nel libro.    
Carmine D’Aniello (cantautore) che eseguirà alcuni brani dal vivo.

AVERSA:
Domenica 27 Marzo 18.00, Auditorium ‘Bianca d’Aponte’ via Nobel 2.
Presentazione-Concerto con l’autore, lettura di passi del libro e musica dal vivo col gruppo La tela di juta.

BENEVENTO:
Lunedì 28 Marzo 18.30, Libreria ‘Luidig’ Palazzo Collenea Corso Garibaldi 95.
Saranno presenti oltre all’autore:
Donato Zoppo (critico musicale), autore del saggio La canzone progressiva, contenuto nel libro.
Antonio Piccolo (attore e critico musicale) autore del saggio La canzone a teatro, contenuto nel libro.   
Carmine D’Aniello (cantautore) che eseguirà alcuni brani dal vivo.
Modererà l’incontro Flavio Ignelzi, giornalista redattore del magazine Salad Days.


In ciascun appuntamento l’attore Giuseppe Cerrone leggerà alcuni passi del libro.



L'evento è presentato da  Teatro in fabula.


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martedì 15 marzo 2011

Paolo Fiorucci - C2-36




La casetta sembrava di marzapane, ma non lo era. No, le case nella realtà non sono di marzapane e questa casa esisteva; però sembrava di marzapane. Era tutta colorata come un quartiere di un film di Tim Burton, di quelli con l’erba d’un daltonico verdearancio nelle foto virate ambra, abitati da donne col rossetto fucsia.
Sebastiano, Andrea e Paolo entrarono dalla porta principale e si sistemarono in soggiorno. Le pareti erano sottilissime, quasi quanto quelle degli uffici nei grattacieli dei film polizieschi e internamente la casa non aveva affatto la vividezza dell’esterno. Su un divano verde opaco c’erano un Regolo, coi mattoncini bianchi sulla stoffa fuori dalla scatola, e un glokenspiel, ed era il meno: per terra, in quella stanza e in tutta la casa, cianfrusaglie e foto di famiglia, un libro di avventure dentro a un acquario e un pianoforte giocattolo su una stufa. In bagno c’era il tavolo dei libri: Platone, una ‘Vita di San Francesco’, Andersen e un vocabolario di latino con dentro solo i nomi della prima declinazione; sempre sul tavolo, lontano dalla pila di libri, una ‘Storia d’Abruzzo’ sotto un poster del Gran Sasso.
Solo una stanza era in ordine in quella casa, la stanza del sax. La porta della stanza era in legno massello, scurissima e con un pomello color oro acceso; sulla porta un’iscrizione:

Per me si perde e si Resiste
Magnificamente

Dentro c’era un tappeto rosso che portava a una teca trasparente. La stanza era buia, le serrande tutte abbassate e alle finestre c’erano tende rosso scuro. Nella teca il sax sembrava una pepita d’oro.
Sebastiano era completamente a proprio agio in quel marasma, così prese la chitarra e cominciò a parlare della canzone da scrivere entro sera.
Questo è quello che ci è dato sapere, il resto sono solo le voci della discussione dei tre…

* 

Sebastiano: Dobbiamo scrivere una di quelle canzoni che ti fanno passare alla storia. Dunque, vediamo: non dovremmo fare qualcosa di difficile ascolto, però mi piace quell’attacco con l’accordo diverso dalla tonica de Il regno delle fate, ce l’avete presente?
Andrea: Non mi piace che copi, ma non possiamo fare qualcosa che sia solo nostro?!
Sebastiano: Io non copio! Certo che di musica non capisci un mazza…
Paolo: Bah… non è copiare, calmatevi un attimo. Prima di tutto dobbiamo capire di che si parla. È la storia di una creazione, un robot, il più umano fra i robot, persino più umano degli umani e, visto che sarà l’ultima traccia di un concept album sulle creature artificiali, è un punto d’arrivo. Ho pensato che dobbiamo riuscire a dire tutto con la chitarra e con la voce.
Sebastiano: Dici per quell’idea della canzone d’autore che esce dalla materia informe (o una cosa del genere)?
Paolo: Sì ma senti è una cosa semplicissima.
Sebastiano: Com’è che si chiamerà l’album?
Paolo: Sei personaggi in cerca di cuore, e non interrompermi mentre parlo! Sono sei canzoni, una per ogni personaggio. Si parte da un arrangiamento poppissimo per un soldatino di stagno che da una soffitta chiede al bimbo di quarant’anni prima se la guerra è finita oppure no. L’album prosegue con stili, ritmi e generi tutti diversi, tutti sul piacione, per arrivare a questa canzone, a questo robot, che è la creazione perfetta, in cui ci si spoglia degli arrangiamenti e degli ammennicoli e si canta chitarra e voce, si fa canzone d’autore (cioè mia).  Non è che la canzone d'autore venga fuori dalla materia informe, è semplicemente che si libera dai compromessi del Pop per poter arrivare alla gente. Ricordate quando scrivemmo Il regno di Pop? Quello è da prendere come manifesto programmatico. Tutto chiaro?
Andrea: No, tutto fortemente opinabile e ti sei perso per strada troppe cose, io poi alla fine del disco metterei una cover di Ongaro, Il nostro caro Frankie, che unisce la storia delle creature artificiali e della canzone d’autore. Però in generale ci si può lavorare, mi piace l’idea e tu a differenza di Sebastiano sai dare un nome alle cose. 
        Sebastiano: Più passa il tempo e meno ti sopporto. Ad ogni modo, se si parla di una creazione si parla di sesso, e la cosa comincia a piacermi: facciamo cominciare tutto con un orgasmo!
Andrea: No dai, troppo diretto! Diciamo che c’è bisogno di fuggire dalla consuetudine, dalla realtà, di creare una situazione al di fuori del tempo del mondo, come se il tempo non contasse più e lo spazio fosse altro.
Paolo: «Quando ormai non contava più il tempo». Inizieremo così.  
Sebastiano: Sentite qua questo giro: VIm-V-IV e poi per dare narratività sostituiamo il primo accordo minore con il relativo maggiore e l’ultimo accordo maggiore con il relativo minore. Eh?
Andrea: Oh oh oh calma! Non ci sto capendo un cazzo. La melodia mi piace ma cerca di farmici capire qualcosa!
Sebastiano: Non è colpa mia se sei ignorante!
Paolo: Credo di aver capito, comunque mi pare possa andare. Poi tra la prima e la seconda strofa io metterei un accordo che dia sospensione: «Il più umano fra tutti i robot», ecco, su robot.
Sebastiano: Un accordo di settima!
Paolo: Fa come ti pare…
Sebastiano: III7 et voilà!
Paolo: Sì, perfetto, ci sta da Dio! Fin qui è tutto molto ‘tondo’ in 4/4, ora movimentiamo un po’, mi serve un ritmo popolare, in 3.
Andrea: Secondo me questo è un personaggio strepitoso, che ha bisogno di tutta la tenerezza di ‘sto mondo. Lo immagino a metà tra la paura e la voglia di visitare il mondo, e soprattutto ansioso di crearsi una identità. Mi è capitato spesso, e cazzo se lo capisco: qui sembra sempre di dover essere pronti a qualcosa, bisogna sempre essere adeguati. Ma a cosa? A che? Io faccio fatica ad adeguarmi a me stesso, mi sembra già tanto. Ho visto eserciti di persone fingere una faccia sorridente, partecipare alla corsa all’oro della scalata sociale più cinica. Quelli sono gli automi, mentre a questo robot, se ho capito bene, basta avere cervello e cuore, poi vivere farà la differenza: soffrire e aver paura, piangere e gioire, sbagliare e ricordare appena o credere di ricordare; questo è. E, guarda un po’, pretende di essere accettato. Il fatto è che quando nasci hai bisogno di un’identità: una caffettiera ha un ruolo ben preciso nella Storia, se non la invitano a ‘Porta a Porta’ e Vespa non dichiara davanti a tutti «Lei non è una caffettiera, lei è un essere umano» tutti la crederanno sempre una caffettiera.
Sebastiano: Facciamolo sodomizzare dallo zio macellaio, che poi lo spacca in quattro e occulta il cadavere nella credenza (popolare).
Andrea: Ci servirebbe qualcosa che nell’immaginario rappresenti una realtà capovolta, un luogo cioè dove sia credibile il fatto che un ammasso di ferro, bulloni e cartone sia un essere umano.
Paolo: Il circo! «Realtà capovolta, mondo di uguali perché tutti strani» come dice Guccini. Diciamo che però bisogna far capire la differenza tra il ‘prima’ e il ‘dopo’.
Sebastiano: Cos’è che più ci rappresenta? L’identità su che si basa? Cos’è la prima cosa che ci appartiene, anche prima del nostro fegato o dei nostri polmoni, qualcosa che è nostro a prescindere da noi stessi, dalla nostra volontà?
Paolo: Il nome!
Sebastiano: Fantastico sì! Ma bisogna essere chiari. Il nome c’è perché serve a qualcosa, sono suoni e simboli associati a qualcosa che esiste. Per un robot non c’è bisogno di identità, quindi il nome viene fuori dall’accostamento di qualcosa che c’è già e che solo casualmente è stato messo insieme per lui; qualcosa di freddo, asettico, arido, inumano. Tipo un numero di serie, H7-25, hai presente quel film di Bud Spencer? D’altra parte, quando quest’essere acquista una identità, ci vuole un nome che lo identifichi immediatamente come ‘uomo’. Magari, visto che siamo in un circo, qualcosa tipo ‘Donna cannone’. È così che la gente capisce subito la differenza.
Paolo: ‘C2-36’ e ‘Uomo’… ‘Uomo’… ‘Uomo bullone’.
Andrea: Sentite, a me tutta ‘sta storia non convince. Ora che mi ci fate riflettere: ma credete davvero che una convenzione sociale basti per fare un essere umano? Una identità prescinde da una convenzione sociale. L’identità è semplicemente essere uguali a se stessi. Se ho capito bene in tutto il disco ciò che queste creature cercano è il fatto di essere accettate. Bene: sanno che falliranno e provano lo stesso. Hanno la magnifica forza dei personaggi di tutte le poesie. Resistono, e resistendo hanno già magnificamente vinto. Poi perderanno, ma è un particolare di poco conto. Questo C2-36 a differenza degli altri deve fare il passo in più, e il passo in più è la consapevolezza. Questo qui deve uscire da questo circo e dire: «Ok, grazie di tutto, ma cercavo altro, cercavo me stesso e io sono me stesso a prescindere da voialtri e dal nome». Dopo la catarsi, dopo la scena da circo, ci vuole perciò un’ultima strofa, o ritornello, o quel cazzo che vi pare, in cui si deve essere chiari, limpidi, consapevoli.
Sebastiano: Ci vuole una bella morte, o almeno il fatto di dare l’idea di qualcosa che sfuma, fosse anche tutta la storia, fosse anche far credere che tutto sia stato un sogno dell’inventore, del fattore, di Dio.
Paolo: Prima bisogna far morire il circo però, e visto che parli di qualcosa che sfuma, niente è meglio di un manifesto che stinge. Avete presente quel capolavoro di Being for the Benefit of Mr. Kite! dei Beatles? Una canzone scritta ‘copiando’ un manifesto da circo. Il manifesto è il circo. E avete presente che i manifesti da circo stinti rimangono sui muri per mesi a volte? Non c’è niente forse che rappresenti l’idea di passato più di un manifesto giallo acceso da circo che stinge, coi nomi che sbiadiscono, per restare a ciò che dice Andrea.
          Andrea: Tu lo sai però che la Storia non risarcisce, vero? C2-36 sarà sempre ‘L’uomo bullone’, fuori dal tendone non esisterà per la gente. La Storia ha bisogno di Vespa che la scriva – con in mezzo «spot di bambini di donne e motori» – e dia i nomi alle cose; la gente ha bisogno dell’imbonitore da circo che la rassicuri perché non ha nessuna intenzione di scegliere la propria strada. Lo sai questo vero? Perché il personaggio che stiamo scrivendo lo sa benissimo. 
       Paolo: Lo sa, e ora lo so anch’io grazie a lui. 


giovedì 3 marzo 2011

Le storie di Cristiano Angelini

Caro diario,
oggi parlerò dell’ultimo – e primo – album di Cristiano Angelini: L’ombra della mosca. Cioè, un momento, il buon Angelini non me ne voglia ma, in realtà, parlerò dell’album per parlare dei testi delle canzoni.
 Perché ne parlo? Perché non se ne può più. Perché oggi non si fa altro che dire che la canzone è d’autore quando «ha buoni testi», e allora per dimostrarlo si mette in fila come esempio un discreto numero di parole che dovrebbero essere poetiche, assonanti o sinestetiche e degne del «Quand(a) si ppoet!». Non se ne può davvero più!

Una volta per tutte: la canzone d’autore non è tale quando ha bei testi, semmai quando si devono stare a sentire, che già è una cosa diversa. La canzone d’autore è un linguaggio, un modo di esprimersi come l’italiano, i cartelli stradali o le bandierine in una pista d’atterraggio: se una bandierina è un po’ più sbiadita non parla un altro linguaggio.

Una delle cose che da sempre caratterizza le canzoni dei cantautori è la narratività, anche quando il brano è descrittivo nelle intenzioni. Si racconta una storia, è questo che rende ‘letteraria’ una serie di parole scelte e messe in fila non per farle leggere su una pagina bianca, ma per cantarle. Questo, per esempio, fa Angelini nel suo disco: storie e ritratti da L’iscariota ad Aisha la maga, fino a quelle in cui si racconta uno stato d’animo. Non solo: il punto forte di canzoni come queste è che hanno una robusta e viva struttura metaforica, cioè che parlano della realtà tramite la realtà stessa; credo sia questo il senso del riferimento al «poetico realismo» di cui si parla nello Statuto del Premio Tenco. Prendiamo come esempio La polvere dei guai: è un bozzetto preciso, un racconto con un tempo interiore, limpido, in cui si parla di una situazione che pure è irreale. Credo che la metafora sia la figura retorica principessa, la migliore, e invece troppo spesso la si confonde con l'analogia. No: bisogna riscrivere il mondo avendo il coraggio di dare riferimenti precisi, plastici, narrativi, sia con le parole che con la musica.

E invece no, sembra che la supposta – che già... voglio dire: è chiaro come termine no? – bellezza dei testi decreti il genere. Questo purtroppo influenza anche i ragazzi che scrivono canzoni, e sposta la loro attenzione, più che sull’idea di fondo, sull’apparenza testuale. La struttura fonica, metrica, quella semantica non immediatamente rimandabile al comune significato delle parole, sono elementi che prescindono dalla consapevolezza dell’autore: le canzoni o le sai scrivere o no, e non è ‘abbellendo’ il testo che fai canzone d’autore.
Oggi è purtroppo tempo di impressionismo. Le canzoni principalmente parlano di interiorità, seguendo il maledetto assioma che dice che la canzone non può che dare un’impressione, che la musica non può che dare sensazioni inspiegabili, così senza accorgersene si scrivono testi che non parlano, e che quindi non hanno bisogno di qualcuno che ascolti. Sono testi che si accontentano di violentare apparentemente il linguaggio italiano omologato, quando invece ripetono all’infinito formule trite di attesa di poesia. L’impressionismo, se immotivato, è una malattia.

Per fortuna c’è invece chi usa un passaggio I-V o una frase banale ma in minore come si userebbe una ‘a’, come si userebbe – che so? – un complemento di luogo; c’è ancora qualcuno che, tramite un’organizzazione diversa da quella del mondo e da quella verbale, usa il mondo e le parole per raccontarci cose da raccontare.
Per chi vuole ascoltare.
E a culo tutto il resto!

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