giovedì 3 marzo 2011

Le storie di Cristiano Angelini

Caro diario,
oggi parlerò dell’ultimo – e primo – album di Cristiano Angelini: L’ombra della mosca. Cioè, un momento, il buon Angelini non me ne voglia ma, in realtà, parlerò dell’album per parlare dei testi delle canzoni.
 Perché ne parlo? Perché non se ne può più. Perché oggi non si fa altro che dire che la canzone è d’autore quando «ha buoni testi», e allora per dimostrarlo si mette in fila come esempio un discreto numero di parole che dovrebbero essere poetiche, assonanti o sinestetiche e degne del «Quand(a) si ppoet!». Non se ne può davvero più!

Una volta per tutte: la canzone d’autore non è tale quando ha bei testi, semmai quando si devono stare a sentire, che già è una cosa diversa. La canzone d’autore è un linguaggio, un modo di esprimersi come l’italiano, i cartelli stradali o le bandierine in una pista d’atterraggio: se una bandierina è un po’ più sbiadita non parla un altro linguaggio.

Una delle cose che da sempre caratterizza le canzoni dei cantautori è la narratività, anche quando il brano è descrittivo nelle intenzioni. Si racconta una storia, è questo che rende ‘letteraria’ una serie di parole scelte e messe in fila non per farle leggere su una pagina bianca, ma per cantarle. Questo, per esempio, fa Angelini nel suo disco: storie e ritratti da L’iscariota ad Aisha la maga, fino a quelle in cui si racconta uno stato d’animo. Non solo: il punto forte di canzoni come queste è che hanno una robusta e viva struttura metaforica, cioè che parlano della realtà tramite la realtà stessa; credo sia questo il senso del riferimento al «poetico realismo» di cui si parla nello Statuto del Premio Tenco. Prendiamo come esempio La polvere dei guai: è un bozzetto preciso, un racconto con un tempo interiore, limpido, in cui si parla di una situazione che pure è irreale. Credo che la metafora sia la figura retorica principessa, la migliore, e invece troppo spesso la si confonde con l'analogia. No: bisogna riscrivere il mondo avendo il coraggio di dare riferimenti precisi, plastici, narrativi, sia con le parole che con la musica.

E invece no, sembra che la supposta – che già... voglio dire: è chiaro come termine no? – bellezza dei testi decreti il genere. Questo purtroppo influenza anche i ragazzi che scrivono canzoni, e sposta la loro attenzione, più che sull’idea di fondo, sull’apparenza testuale. La struttura fonica, metrica, quella semantica non immediatamente rimandabile al comune significato delle parole, sono elementi che prescindono dalla consapevolezza dell’autore: le canzoni o le sai scrivere o no, e non è ‘abbellendo’ il testo che fai canzone d’autore.
Oggi è purtroppo tempo di impressionismo. Le canzoni principalmente parlano di interiorità, seguendo il maledetto assioma che dice che la canzone non può che dare un’impressione, che la musica non può che dare sensazioni inspiegabili, così senza accorgersene si scrivono testi che non parlano, e che quindi non hanno bisogno di qualcuno che ascolti. Sono testi che si accontentano di violentare apparentemente il linguaggio italiano omologato, quando invece ripetono all’infinito formule trite di attesa di poesia. L’impressionismo, se immotivato, è una malattia.

Per fortuna c’è invece chi usa un passaggio I-V o una frase banale ma in minore come si userebbe una ‘a’, come si userebbe – che so? – un complemento di luogo; c’è ancora qualcuno che, tramite un’organizzazione diversa da quella del mondo e da quella verbale, usa il mondo e le parole per raccontarci cose da raccontare.
Per chi vuole ascoltare.
E a culo tutto il resto!

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1 commento:

  1. E per fortuna esiste ancora chi riesce a centrare in pieno il bersaglio con i suoi articoli!
    Complimenti Paolo.

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