venerdì 5 agosto 2011

Marco Ongaro, Max Manfredi e i Cantautori Novissimi.

Passo tratto dal libro Cantautori novissimi. Canzone d'autore per il Terzo Millennio, Bastogi, Foggia, 2008, pp. 51-56:

La neo-avanguardia della canzone d’autore è tale  perché, tramite internet e per via del fatto che i rapporti con le majors sono ininfluenti o assenti, i cantautori per la prima volta nella storia possono creare in totale indipendenza artistica; si è perso molto in senso promozionale ma si è guadagnato altrettanto in senso artistico – e, va da sé, quello a me interessa in questo frangente –, e nemmeno l’avanguardia della canzone partita dagli anni Sessanta poteva permetterselo in maniera così totalizzante.
L’opera che descrive artisticamente il 'giro di boa' è L’intagliatore di santi del 2001, di Max Manfredi; quella che rappresenta, per motivi artistici e umani, l’inizio di questa nuova consapevolezza si può invece individuare nell’album Dio è altrove del 2002, di Marco Ongaro. 

Dell’album di Manfredi è importante citare due canzoni che si intitolano rispettivamente Freddo e L’intagliatore di santi, brano che dà nome all’intero disco; sono la prima e l’ultima dell’opera: nella prima l’autore descrive l’avvertimento delle sensazioni di chi è effettivamente 'sopravvissuto', come leggeremo tra breve nelle parole di Ongaro, a un periodo di decadenza e naftalina delle possibilità artistiche. La canzone si apre inequivocabilmente con questo verso da day after:

È freddo, le dita son fredde e sveglian le corde di questa chitarra. [1]

continuando poi nella descrizione di chi prefigurava un trattamento dovuto, una prassi riservata ad artisti predecessori che non sarebbe mancato in un clima non investito dall’ellissi discografica:

Supponevo che sarei caduto ma in un altro modo, già, e per vanità:
mi vedevo cadere con lo stile e il mestiere di un cavallo a Cinecittà,
mi vedevo cadere con la diaria e il mestiere di un cavallo a Cinecittà.

Nella canzone L’intagliatore di santi, invece, si descrive una nuova era, dopo la fine e la palingenesi; notare come in questo modo l’intero corpo dell’album si ponga come una specie di “attraversamento del punto di svolta”: 

È da poco che sono in città
e mi sono ambientato da poco,
tra parchi, rovine e caffè
e le mura che danno sul vuoto.  [2]

 Il brano prosegue con una serie di immagini da sabato del villaggio – con la decisiva consapevolezza acquisita, però, di trovarsi in un lunedì –, con una tranquillità creatrice, morbida e amena, non a caso in un ruolo d’artigiano.

Esperto come sempre nell’avvertimento e nello smascheramento dei paradossi di ogni pseudo-apocalisse, Manfredi rivendicava nella prima canzone dell’album – anche qui, non a caso, in un album pubblicato dopo un lungo periodo di inattività discografica personale durata sette anni – una fiera appartenenza artistica e prefigurava nell’ultima ciò che si sarebbe fatto emblema consapevole in Dio è altrove di Ongaro.
Leggiamo dunque, dalla canzone eponima della stessa Dio è altrove, pochi ma emblematici versi:

Ciò che si crede davvero importante,
veduto all'ombra di un sole minore,
può risultare un po' deprimente
se lo si guarda da molte ore.

E se ti credi del tutto innocente
- una pedina e chissà chi ti muove -
non c'è nessuno davvero innocente,
cammina, alzati ché Dio è altrove! [3]


Ongaro ha vissuto il periodo ombratile per troppo tempo, ha smesso nel 1995 dopo aver pubblicato un album dal titolo significativo come Certi sogni non si avverano: appena gli hanno dato una nuova possibilità, a condizioni sue, si è alzato ed ha indagato quell’altrove. Come lui la canzone d’autore. 
Per introdurre questo momento che, comprensibilmente, rappresenta quello decisivo del mio discorso e dell’intero mio saggio, mi servo delle parole dello stesso Ongaro, rilasciatemi in una recente intervista. Mi scuso per la lunghezza del brano in citazione, ma il lettore comprenderà l’importanza del peso di ogni singola parola:

D – Torniamo al periodo di cinque anni in cui sei stato fermo. Puoi parlarmi della gestazione di Dio è altrove? Quali sono stati i motivi che ti hanno convinto a scrivere, pubblicare e a cantare ancora canzoni in prima persona dopo lo stop? Per me quell'album rappresenta l'inizio della neo-avanguardia e l'emblema dei Cantautori Novissimi.
R – Realizzando Lasciatemi vivere per Grazia De Marchi nel 2000 mi sono accorto che non solo esisteva la possibilità di riprendere in mano penna e strumento musicale per fare arte 'su commissione', raccontando l'altrui vita e gli altrui sentimenti e trovandovi nuova linfa espressiva, ma che c'era pure la possibilità di un collegamento totalmente autonomo con la piccola industria, nella persona di Renato Venturiero e della sua Rossodisera, all'epoca distribuita da EMI. Venturiero aveva stampato il cd della De Marchi con piglio collezionistico, dopo che l'avevo interamente inciso ed arrangiato. Praticamente aveva accettato il lavoro a scatola chiusa e questa era la prima volta che mi capitava, se pensiamo che Archivio Postumia era ancora lontano dall'essere pubblicato proprio perché inciso e arrangiato in perfetta autonomia nel 1990.
Era evidentemente cambiato qualcosa. Non capivo cosa avesse provocato il cambiamento, ma ne avvertivo pienamente l'effetto.
Ne ho avuto conferma quando ho proposto sempre a Venturiero, l'anno successivo, di pubblicare l'album Shakespeariana che avevo scritto e arrangiato per Giuliana Bergamaschi. Quando gli ho dato il master mi ha detto, con una smorfia ironica da cavaliere senza macchia: "Nessuna radio trasmetterà mai neanche un secondo di queste canzoni". Lo diceva come sfogo, mentre accettava senza condizioni di pubblicarlo come aveva fatto col precedente.
Evidentemente il suo contratto di distribuzione con la Emi lo poneva in una posizione estremamente autonoma, ovvero gli avrebbero distribuito (o finto di distribuire) qualunque cosa lui avesse deciso ed era questa autonomia a riverberarsi nella mia nuova libertà di creare sapendo che sarei comunque stato pubblicato.
Shakespeariana è stato completato nel settembre 2001 ed è uscito nel novembre di quell'anno. Nel luglio dello stesso anno il chitarrista Roby Ceruti, sulla spinta di un altro produttore particolarmente vivace in quel momento, Marco Rossi di Azzurramusic, mi chiese di diventare la voce di un nuovo gruppo rock e di scrivere le canzoni necessarie a farne un cd. Il momento era davvero magico: scrivevo quello che volevo sapendo che sarebbe stato pubblicato come piaceva a me e adesso mi si chiedeva di tornare a cantare su un genere che già avevo sperimentato in passato e il tutto in assoluta libertà.
Che i dischi vendessero o meno non era importante quanto superare la condizione di "cantautore postumo in vita" dando alle stampe, quindi alla memoria culturale del Paese, l'espressione della mia arte così come la sentivo e nel momento in cui la sentivo! L'oggetto CD era destinato ad essere venduto ai concerti, non contava molto. Ma contava la produzione, che un produttore pagasse sala d'incisione e musicisti per realizzare un master offrendo forma compiuta all'idea creativa. Ero nelle condizioni dell'artista che lavora sapendo di avere comunque dei collezionisti.
Nello sfacelo totale della discografia, si aprivano spiragli individuali molto stimolanti, spiragli che in passato erano appannaggio solamente di chi aveva avuto un successo tale da poter dettar legge all'industria. Quindi, appena finito di scrivere l'ultima canzone di Shakespeariana, con l'appuntamento a settembre per inciderla e procedere ai missaggi dell'intero master, sono partito alla volta della Calabria con l'idea di scrivere il cd del mio "ritorno in voce".
Ho fatto tappa a Lecce, a casa di un giovane cantautore che avevo conosciuto da poco, ancora inedito, di nome Alessio Lega, e lì sono stato raggiunto da Max Manfredi per una due giorni/due notti di canzoni ininterrotte nella veranda di casa Lega. Il fermento era nell'aria. Due esausti amici che negli anni Ottanta avevano mosso i primi decadenti passi nella canzone d'autore di fine secolo si ritrovavano insieme alla tavola di una nuova leva piena di entusiasmo. L'idea palpabile era che fossimo sopravvissuti e finalmente potessimo ricominciare.
Dopodiché andai in Calabria, comprai una chitarra e scrissi in un mese Dio è altrove. Era inevitabile che l'album grondasse entusiasmo, smitizzazione, disincanto ma anche segni pulsanti del fermento che stavamo vivendo. La canzone destinata a chiuderlo, Il conte Max di Genova, dedicata all'amico Manfredi, era espressione di quella nuova libertà. Dopo aver parlato di miti e memoria tradita, dopo aver assodato che Dio era altrove, che Shakespeare poteva risvegliarci, che Ligabue era un pittore e Merlino un mago senza poteri, dopo aver giurato di non giurare più di smettere di cantare, offrivo la mia visione di un mito sconosciuto a molti, un autore straordinario con cui avevo avuto la fortuna di condividere parte del mio tragitto artistico. Creavo un mito nel cantarlo, poiché da sempre i miti esistono perché vengono cantati. Chiedevo agli ascoltatori, fossero pure tre, di riconoscere l'esistenza di un mito non consacrato dalle "majors". Contribuivo alla memoria dopo averne lamentato il tradimento.
Il cd è uscito nell'ottobre dell'anno successivo ed ha rappresentato il mio ritorno sulle scene, un ritorno motivato da una sola condizione: la libertà. Qualora questa libertà venisse a mancare di nuovo, di nuovo smetterei di cantare.[4]

La stessa libertà che, da buon artigiano, permette di poter dire a Manfredi in L’intagliatore di santi: ‹‹intanto che poso il lavoro/ e bevo una birra alla spina››, descrivendo l’attività più quotidiana di questo mondo, in quel contesto, però, precisamente poetica. Attenzione: le mie non sono solo congetture filologiche di un critico; tutto è inequivocabile, tutto rappresenta un movimento cosciente che fa di Dio è altrove la prima opera sicuramente consapevole del nuovo corso e adeguato manifesto d’apertura:

Il conte Max di Genova
vive di recente 
molto attivamente
la sua libertà che incanta.[5]

Possiamo semplificare in questo modo questo snodo: il disegno d’apocalisse e la prefigurazione delle condizioni di ripartenza con l’album L’intagliatore di santi di Max Manfredi e l’effettivo movimento, la ri-partenza in Dio è altrove di Marco Ongaro. Di certo: L’intagliatore di santi e Dio è altrove sono due opere mostruosamente riuscite. 
‹‹Nei cardini non ci sono tarli››[6], per dirla con Enzensberger che parla proprio di avanguardia.



[1] M. Manfredi, Freddo (ma non conta niente), in L’intagliatore di santi, Storie di note, 2001.
[2] M. Manfredi, L’intagliatore di santi, in L’intagliatore di santi, Storie di note, 2001.
[3] M. Ongaro, Dio è altrove, da Dio è altrove, AzzurraMusic/D'Autore, 2002.
[5] M. Ongaro, Il conte Max di Genova, da Dio è altrove, AzzurraMusic/D'Autore, 2002. La descrizione sarà precisa, puntuale, metaforica e perfettamente poetica in Max Manfredi, nella canzone Il molo dei greci, pubblicata in Live in blu, per Storie di note, 2004: ‹‹Questa sera qui a Molo dei greci si sconta la pena/ d’aver troppo creduto al vangelo pagano del fado/ fatto a pugni con troppi fantasmi all’Osteria del Rebado/ perso tempo incollati alle onde delle radio a galena./ Ed il Re degli abissi – se trovo chi me l’ha presentato… –/ m’ha ingaggiato a cantar nelle squadre dei suoi trallallero/ poi m’ha fatto firmare un impegno che già ero ubriaco››. Viene descritto il dorato mondo della discografia ufficiale, che cozzava con l’autenticità delle future esibizioni dal vivo, quando ancora si elemosinava controvoglia un passaggio in radio – fra l’altro ‹‹a galena››, quindi sorpassate, forse da internet – che non ci sarebbe mai stato, discografia ufficiale a cui era anche possibile arrivare ma che avrebbe distribuito male il disco e mai lo avrebbe pubblicizzato.
[6] M. Enzensberger, Letteratura e/o rivoluzione, Feltrinelli, Milano, 1970, p.23.

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